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Il passato copre molte volte con la sua impenetrabile coltre una serie di eventi che i soli documenti non riescono a far rivivere.

 

 

Spesso accade, però, che “la voce popolare” tramandi fino al presente alcune testimonianze antiche, che lo storico ha il dovere di indagare e verificare. A volte, la rigorosa ricerca deve fermarsi dinanzi all’impossibilità di riscontrare gli eventi, ma, quando si ha la sorte di imbattersi in testimoni che riescono a squarciare le fitte nebulose del passato, si aprono nuovi orizzonti che fanno riemergere fatti ormai dimenticati.

Proprio questo, mi è accaduto, allorquando mi è stata narrata un’antica tradizione, nota ormai soltanto ad alcuni confratelli della Confraternita leccese del SS.mo Sacramento e di Gesù flagellato e che ho potuto riscontrare in un opera dello storico Buja, secondo cui la statua lignea, in stile veneziano, del Signore alla colonna, ora custodita nella chiesa delle Alcantarine a Lecce, nel lontano passato, fu gettata in un pozzo, ma, subito rinvenuta, operò uno “strano” prodigio, in quanto i delinquenti potettero sfuggire alla giustizia umana, ma non a quella divina. Ricostruiamo adeguatamente i fatti.

L’anno 1883 segnò un punto di importante svolta per la nuova confraternita del Santissimo Sacramento che si riuniva nella chiesa della Nova, a Lecce, in Via Idomeneo. Infatti, oltre al titolo del Santissimo Sacramento, il pio sodalizio si fregiò anche di quello di Gesù Flagellato e ciò avvenne in seguito a un fatto di cronaca, che i giornali del tempo e non solo riportarono con grande enfasi. 

Infatti, nella notte tra il 12 e il 13 maggio del 1883 Lecce fu messa in subbuglio, come ricordava anche il vescovo dell’epoca mons. Zola, facendone menzione nel decreto di costituzione del nuovo titolo conferito alla confraternita del Santissimo Sacramento. Mani sacrileghe, proprio quel giorno, avevano preso la statua di Gesù flagellato, sita in via Matteotti e la gettarono in uno dei pozzi viciniori, ubicato sotto l’arco dei Milanesi, cioè in quel quadrante compreso tra via Matteotti e via dei Templari.

I leccesi, non rinvenendo nel suo solito posto quell’immagine sacra in legno di pregevole fattura, decisero di intraprendere le dovute ricerche e ben presto ritrovarono il simulacro. Il popolo rimase veramente scosso e per riparare l’atto sacrilego volle fare istanza al vescovo, affinché potesse nascere in città una nuova confraternita dedicata a Cristo flagellato e chiese di ubicare la menzionata effigie in una cappella, laddove avrebbe trovato sicuro riparo.

La statua, dopo solenne processione, venne collocata nell’ultimo altare a sinistra più vicino al maggiore della chiesa della Nova, dove officiava la confraternita del Santissimo Sacramento. 

Nel ricordar il turpe gesto, affidiamoci alla contemporanea narrazione della Gazzetta delle Puglie: “Pochi giorni fa fu trovato mancante da una nicchia in via Templari un busto di legno veneziano raffigurante l’Ecce Homo. Mercé l’opera della Questura fu trovato in un pozzo, quasi vicino a detta nicchia, posto in un vicolo tortuoso e che serve a dare acqua a molti cavalli di vetturini e a molte famiglie operaie…”. 

Lo storico locale, Rino Buja, ricostruendo i fatti, scrisse che “tre signori della buona società leccese, chi disse spinti dall’ira, chi per aver perduto al gioco una forte somma, chi invece perché in preda ai fumi dell’alcol, rimossero la statua dalla nicchia e la gettarono nell’adiacente pozzo” (Idem, Dalla strada alla storia, Lecce 1994, p. 219).

Il Buja prosegue: “Da alcuni contemporanei all’accaduto, ho sentito più volte raccontare, con molta convinzione, che i tre sacrileghi pagarono duramente, in seguito, il loro gesto insano: uno di essi che aveva retto la statua per le gambe, nel tentativo di superare con un salto una pozzanghera, cadde malamente e si fratturò entrambe le gambe; poco dopo subentrò, non si seppe come, una inarrestabile infezione che degenerò in cancrena, e il malcapitato morì. Il secondo, che aveva retto la statua per il capo, in seguito a non ricordo quale particolare accidente, si ruppe la testa e ne ebbe anch’egli la morte dopo una lunga e sofferta agonia. Il terzo, che aveva retto per le spalle il simulacro, morì per un bubbone di natura maligna che gli era improvvisamente spuntato sulla schiena. Prima di morire, lucidamente consapevole che quel male terribile era la vindice conseguenza del commesso sacrilegio, al chirurgo dott.Vito Fazzi, suo amico, che l’operava in un estremo quanto inutile tentativo di salvargli la vita, egli, convinto dell’inutilità di quell’intervento, ripeteva, in tono scettico e rassegnato: Tagghia, Itu, ca te dhrai lu zzeccai, Taglia Vito che da quella parte lo afferrai” (Ibidem pp. 224-225).

Mentre è certamente storico il fatto della statua dell’Ecce homo gettata nel pozzo, alcuni dubbi vengono in merito alla fine che fecero gli autori del delitto. Questi avvenimenti, così narrati, appartengono alla storia o sono piuttosto fatti “leggendari”, frutto di invenzioni popolari?

Non avrei potuto rispondere adeguatamente a questo interrogativo se non avessi incontrato Massimo Madaro, il quale, conoscendo questa “storia”, mi disse che un autore del delitto fu un suo antenato, e che di questo, con molta circospezione, si parlava in famiglia, aggiungendo che l’antenato si chiamava Gaetano ed era morto in gioventù per un “bubbone”. In questo modo, ho potuto ricostruire l’albero genealogico di Massimo Madaro e rinvenire che un suo antenato era un certo Gaetano Madaro, figlio del rivoluzionario Gaetano Madaro (Monteroni 1808-Lecce 1898).

Ciò che mi sorprese della vita di Gaetano Madaro junior fu il fatto che egli fosse un convinto rivoluzionario e che molto probabilmente fu legato al chirurgo Vito Fazzi, anch’egli convinto risorgimentale. Gaetano Madaro nacque il 6 maggio 1848 e visse i suoi primi anni solo con la madre, perché il padre era nelle patrie galere, dove scontò una pena di 4 anni, poiché facinoroso rivoluzionario. Divenuto adulto, il nostro Madaro si sposò civilmente a Trepuzzi il 31 dicembre del 1877 e, quando ebbe un figlio maschio, non esitò a dargli un nome “rivoluzionario”. Infatti, nel 1886, nacque Salvatore Nobiling, essendo quest’ultimo nome, legato al mondo degli anarchici. Anche l’altro figlio maschio fu chiamato con un nome che ricordava un protagonista del risorgimento: Oberdan.

Gaetano Madaro morì il 12 agosto del 1889, cioè 6 anni dopo il turpe gesto sacrilego, a soli 41 anni. Inoltre, probabilmente era afflitto da un male, un tumore, che già lo aveva debilitato l’anno precedente, visto che l’ultima figlia, nata a ottobre del 1888, fu chiamata Gaetana e, giunta al Sacro fonte della cattedrale di Lecce, per essere battezzata, fu registrata nel Libro dei battesimi, come bimba “derelicta”, cioè abbandonata, proprio perché il padre era dato per irrimediabilmente malato e, infatti, morì qualche mese dopo. Infine, anche la scelta del nome Gaetana costituisce un ulteriore indizio riguardo alla fine prematura del padre: un Gaetano usciva da questo mondo, e una Gaetana vi entrava.  

Infine, come detto, il Madaro e il Fazzi furono realmente amici, in quanto condividevano le medesime posizioni politiche, essendo vicini al mondo risorgimentale e chiaramente schierati in senso anticlericale. Basti pensare che il settimanale pugliese Il Risorgimento dedicò tutto un intero numero alla vittoria politica del radicale Fazzi, che aveva sconfitto il partito “clericale” nell’elezioni del collegio di Lecce del 1914. Tra l’altro, così scriveva dei clericali per inneggiare alla vittoria del radicale Fazzi: “Scriviamo a otto giorni di distanza dall’epica lotta, per inneggiare a Lecce nostra che, finalmente, ha spezzato il giogo che la teneva avvinta da cinque mesi ed ha saputo resistere al denaro dei democratici e dei clericali. Ha saputo resistere alle minacce dei preti politicanti ed alle imposizioni dei confessionali, ha saputo reagire sdegnosamente contro ogni atto di corruzione… ha voluto esprimere da signora e non da serva, il suo voto per un uomo che è l’onore della provincia, ha un carattere adamantino, che ha dato prova inconfutabile di non tenere alla medaglina di deputato, disprezzandola, conscio del suo valore che lo rende rispettato ed amato da tutti!”. Sempre il medesimo articolista, non temeva di chiamare i clericali: “spergiuri e mercenari, ministri di satana e non di Dio”. 

L’indagine storica mi ha portato a rinvenire, dunque, senza ombra di dubbio, uno degli autori del delitto e a concludere, dall’insieme delle notizie raccolte, che la mano sacrilega che compì il folle e irriguardoso gesto fu, tra le altre, proprio quella di Gaetano Madaro e, pertanto, la “leggenda” raccontata in merito alla sua prematura morte causata dal vile atto corrisponde piuttosto a una “strana”, ma autentica realtà che la fede popolare ha “riletto” come un segno divino. A volte, infatti, accade che i detti di un popolo manifestino innegabili verità.

 

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