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Era la notte di Natale del 1599. Il buio che avvolgeva Lecce veniva rischiarato solo da lucerne e candele. I fedeli già si spargevano per le viuzze cittadine, levando al cielo scuro inni e preghiere.

Padre Bernardino Realino scese nella chiesa del Gesù per mettersi, come suo solito, al confessionale. Era ormai settantenne, camminava a stento, appoggiando il peso ad una rozza canna. Curvo, col volto scavato dalle rughe, increspato di barba canuta. Solo gli occhi, chiarissimi, non erano mai cambiati e testimoniavano ciò che lui era sempre stato. Uno spirito gagliardo, un leone rampante, ritrovatosi adesso in un corpo debole. Di notti natalizie leccesi, il Padre Bernardino, ne aveva viste tante da quando aveva messo per la prima volta piede in Puglia, senza mai più andar via. Pure, non se ne ricordava una tanto fredda e umida come questa. Era perché aveva deciso di vestirsi con la talare leggera, da mezza stagione, per offrire a Dio l’ennesima penitenza. O forse, semplicemente, perché stava diventando vecchio. E doveva accettarlo. La mano, capace un tempo di far volteggiare la spada, adesso gli tremava anche quando scorreva i grani del rosario.

Arrivò al confessionale, baciò la croce della stola e tirò la tendina, pronto al suo quotidiano martirio di ore e ore di elargizione della misericordia celeste. Venne subito ad inginocchiarsi alla grata donna Isabella, sua affezionata figlia spirituale. La zelante dama principiò con l’accusa dei suoi peccati muliebri ma le parve che, tra quelle tavolacce di legno, il povero prete stesse ad ascoltarla tremando come un giunco e battendo quasi i denti. Attese l’assoluzione e andò di filato dal Padre Alessandro, rettore del collegio, ad avvertirlo della cosa. Questi fece sapere a Bernardino che, per quella sera, lo dispensava dalle confessioni: andasse pure su in camera e presto gli avrebbero portato il fuoco per scaldarsi. Il vecchio, da buon gesuita, ascoltati gli ordini del superiore, obbedì.

Ma era la notte santa, la notte in cui il Verbo si faceva carne. Socchiusa la porta della cella, si pose in ginocchio sul pavimento, a contemplare il mistero altissimo della nascita del Salvatore. Cominciò a pregare. E sempre più intensamente. Immergeva il cuore, l’anima, tutto il suo essere nelle verità divine. Ed ecco, ad un tratto, le spoglie pareti della stanza scomparvero. Il muro di carta del tempo era sfondato. Si ritrovò a Betlemme. Vide la grotta scabra, con le rocce coperte di muschio, la paglia posta nella mangiatoia. I suoi occhi contemplarono l’astro, sorto ad annunciare alle genti la redenzione promessa. I suoi orecchi udirono il gloria eterno dei cherubini. In quello splendore, ecco la Vergine, regina degli angeli, meravigliosa oltre ogni dire, che aveva dato al mondo l’autore della vita. “Bernardino, mio servo, perché tremi in questa notte?”, domanda la Madre di Dio. E, così dicendo, protende il Cristo neonato verso il vegliardo. Come i magi e i pastori, Bernardino lo adora con la fronte per terra e poi, ardito, lo riceve tra le proprie braccia. Vorrebbe stringerlo quanto più è possibile, vorrebbe che quell’istante durasse per sempre. Il piccolo Messia leva allora la minuscola mano verso l’alto per benedire il suo sacerdote. Giunge intanto un famiglio a portare il fuoco nella stanza del vecchio padre. Ma stupefatto nota come, dallo spiraglio dell’uscio, filtrino raggi di luce arcana. Spalancata la porta, assiste all’attimo finale dell’estasi. Tutto è scomparso ma la cella è inondata di un misterioso profumo. Il volto di Bernardino è divenuto più bello di quand’era nel colmo della giovinezza. Dalla sua veste sprizzano scintille. Il suo corpo sprigiona un dolce calore, come quello di un bel camino.                  

                                                                                                                              

 

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