Portalecce rilancia volentieri un articolo redatto dal vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, apparso domenica 6 ottobre in prima pagina su “Nuovo Quotidiano di Puglia”.
Le recenti parole di Papa Francesco sull’aborto hanno toccato un nervo scoperto della sensibilità del nostro tempo e hanno messo in evidenza il profondo cambiamento culturale avvenuto nella società, soprattutto quella occidentale. Al fondo, si può dire che si è operata una insanabile frattura tra la “cultura della vita”, fondata sul primato del dono, e “la cultura della scelta”, fondata sull’egemonia della libertà intesa come autodeterminazione assoluta.
In questa prospettiva, il tema dell’aborto non è solo una questione morale o un aspetto della dottrina cattolica, ma riguarda un valore antropologico ossia un modo di intendere la vita umana e il senso dell’esistere. Ciò che viene messo in gioco è la natura dell’uomo, la sua essenza più profonda, non un semplice valore religioso. In altri termini, chi intende praticare l’aborto dovrebbe porsi le seguenti domanda: quale è il valore primario su cui si fonda l’esistenza personale e il vivere sociale? Cosa c’è di essenziale, originario e fondamentale nella vita: il dono o la scelta? Cosa viene prima e permette la possibilità dell’altra? Viene prima la scelta o il dono che consente poi di scegliere?
Senza dubbio e in modo inequivocabile bisogna affermare che il primato assoluto spetta al dono! La scelta è secondaria. Ha bisogno del dono per potersi effettuare. Prima viene il dono e su di esso si fonda la possibilità della scelta. Senza il dono, la scelta semplicemente non esiste. In altri termini, prima si nasce perché qualcuno ci ha generati cioè ci ha donato la vita, ci ha dato la possibilità di esistere. Su questo fondamento può svilupparsi la possibilità della libera scelta. Nessuno si autogenera. Nessuno decide o sceglie di venire la mondo. Tutti riceviamo la vita da altri. Essa ci appartiene perché la riceviamo in dono, non perché è il frutto di una nostra libera scelta.
Pertanto, di fronte alla vita che viene concepita e generata nel grembo materno e che dal nulla si affaccia all’esistenza, come di fronte alla vita del piccolissimo essere umano appena concepito, prima viene l’accoglienza, poi tutto il resto. Vivere presuppone innanzitutto l’accettazione, più o meno consapevole, del dono che ci è stato fatto. Certo potremo anche scegliere e decidere di toglierci la vita che abbiamo ricevuta, ma mai, in nessun modo e in nessun caso potremmo darci la vita da noi stessi. Possiamo scegliere solo perché abbiamo ricevuto la vita. Altrimenti non sarebbe neppure possibile operare una scelta. La vita è fondata su un dono originario, la cui essenza è la gratuità dell’amore, non la possibilità della scelta!
E così, anche di fronte alla vita colpita dalla malattia e dalla disabilità o devastata dalla guerra e dalla miseria, l’imperativo che sorge spontaneo nel cuore di tutti gli uomini è venire incontro alla vita degli altri. Soccorrerla, difenderla e custodirla. Non intervenire sarebbe profondamente disumano. Curare la persona debole e fragile è dunque un imperativo umano, oltre che un comandamento divino.
In questa prospettiva, occorre sottolineare che, quando si parla del tema dell’aborto, ciò che è in gioco non è la dottrina cattolica, ma il senso dell’umanità, il suo valore più profondo, il senso ultimo dell’esistenza personale e del vivere sociale. Chi abortisce non solo viene meno a un comando divino, ma anche a un imperativo umano. Per esaltare il disvalore di una libertà svincolata da tutti i legami si rinnega il senso più profondo dell’essere uomini. La donna che ha concepito non ha più la scelta di rifiutare l’essere che ha generato, ma ha solo il dovere di accoglierlo e di darlo alla luce.
La donna che pone il primato nella “scelta” rifiuta non solo la vita del suo bambino, ma anche se stessa. Con il bambino muore anche una parte della madre. Il bambino, infatti, è parte della madre, non un corpo estraneo. Non vi è poi nessuna differenza tra il bambino nato e quello che è ancora nel grembo materno. Sono entrambi essere umani che vanno accolti come un dono, senza alcuna possibilità di scegliere l’uno, rifiutando l’altro.
La libertà, sganciata dal suo legame costitutivo con la verità del dono e con la gratuità dell’amore che ne è la sua essenza, distrugge la persona e la società. È la legge del più forte contro i più deboli, destinati a soccombere. Il dono fonda i diritti e non viceversa! Senza il primato del dono si distruggono tutti i diritti. Sganciati dal loro fondamento, essi si corrompono e si deteriorano. Non esiste, pertanto, un diritto all’aborto, esiste invece un diritto alla vita.
L’aborto è dunque un delitto, e non può mai essere inteso come un diritto, nemmeno se viene sancito da una legge dello Stato e magari inserito anche nella carta costituzionale. La cultura della scelta, fondata sulla libertà considerata come autodeterminazione assoluta, è cultura di morte personale e sociale. La cultura della vita, invece, nasce da uno sguardo di venerazione che sa riconoscere in sé e nell’altro il segno di una realtà più grande e si esprime come forza generativa di responsabilità e di amorevole custodia dell’uomo.
“Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 28). La cultura della vita è il sigillo di autenticità di ogni altro impegno a servizio dell'uomo, dona occhi nuovi per vedere meglio la preziosità della vita di ogni uomo, costruisce la fraternità, promuove i veri diritti ed è fonte di pace.