“Vedi, Erminia - scrive Hermann Hesse nel suo romanzo Il lupo della steppa - questi attacchi non mi danno più fastidio, ma qualche volta mi mettono addosso una grande tristezza”.
“Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata. Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in un’ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol riflettere, nessuno vuole evitare la prossima guerra, nessuno vuol risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni di individui. Rifletterci un’ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno vuol farlo. E così si andrà avanti e la prossima guerra è preparata giorno per giorno con ardore da molte migliaia di uomini”.
Il pessimismo dell’autore tedesco, purtroppo, trova molte conferme storiche, sia nelle piccole come nelle grandi fasi storiche. Noi, ai giornali, aggiungeremmo - oggigiorno - la televisione, i social media, internet, WhatsApp, il risultato non cambierebbe: siamo “aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà la guerra”. Siamo in piena pandemia: non nascondo che nel vedere certe scene, alcune volte, mi sono ritornate in mente le parole di Hesse. Certo la pandemia non è una guerra, ma pone problemi di paure e sicurezze, più o meno, come una guerra: il virus chi colpirà? quando finirà? Quando arriverà la fine? Con il vaccino?
Le tante domande non sono altro che espressione del bisogno di sicurezza: per persone, famiglie, città, comunità, attività economiche, stati, comunità internazionali e cosi via. Quel bisogno di sicurezza che sembra accompagnare ogni uomo e ogni donna, in tutti i tempi e a tutte le latitudini. E con la pandemia sta crescendo in maniera esponenziale. Più volte abbiamo fatto appello al senso di responsabilità e non ci sono dubbi che essa sia la via maestra. Ma non basta.
Sappiamo bene che la sicurezza è un “qualcosa” che presenta un aspetto cognitivo e uno emotivo. La persona umana, infatti, si ritrova a vivere spesso situazioni di incertezza e di paura. Per “incertezza” intendiamo la carenza, dal punto di vista cognitivo, di dati chiari e stabili; mentre per “paura” una situazione emotiva, segnata da modificazioni fisiche e di comportamento, di fronte ad un vero o presunto pericolo. Il punto è capire, nel nostro caso, come gli ambienti sociali, politici, istituzionali generano e amplificano incertezze e paure o come le riducono e le controllano. Farò un esempio a portata di mano. La tendenza dei mezzi di comunicazione è, ogni giorno, parlare degli aumenti dei casi positivi, precisando sì che sono in aumento i tamponi effettuati, ma dando raramente la percentuale per poter comprendere la reale curva di diffusione, in rapporto al presente come al passato.
Sembrerebbe, alcune volte, che questo s
La paura del virus. Quel bisogno di sicurezza spesso tradito da notizie false o fuorvianti
Rocco D'Ambrosio*
“Vedi, Erminia - scrive Hermann Hesse nel suo romanzo Il lupo della steppa - questi attacchi non mi danno più fastidio, ma qualche volta mi mettono addosso una grande tristezza”.
“Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata. Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in un’ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol riflettere, nessuno vuole evitare la prossima guerra, nessuno vuol risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni di individui. Rifletterci un’ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno vuol farlo. E così si andrà avanti e la prossima guerra è preparata giorno per giorno con ardore da molte migliaia di uomini”.
Il pessimismo dell’autore tedesco, purtroppo, trova molte conferme storiche, sia nelle piccole come nelle grandi fasi storiche. Noi, ai giornali, aggiungeremmo - oggigiorno - la televisione, i social media, internet, WhatsApp, il risultato non cambierebbe: siamo “aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà la guerra”. Siamo in piena pandemia: non nascondo che nel vedere certe scene, alcune volte, mi sono ritornate in mente le parole di Hesse. Certo la pandemia non è una guerra, ma pone problemi di paure e sicurezze, più o meno, come una guerra: il virus chi colpirà? quando finirà? Quando arriverà la fine? Con il vaccino?
Le tante domande non sono altro che espressione del bisogno di sicurezza: per persone, famiglie, città, comunità, attività economiche, stati, comunità internazionali e cosi via. Quel bisogno di sicurezza che sembra accompagnare ogni uomo e ogni donna, in tutti i tempi e a tutte le latitudini. E con la pandemia sta crescendo in maniera esponenziale. Più volte abbiamo fatto appello al senso di responsabilità e non ci sono dubbi che essa sia la via maestra. Ma non basta.
Sappiamo bene che la sicurezza è un “qualcosa” che presenta un aspetto cognitivo e uno emotivo. La persona umana, infatti, si ritrova a vivere spesso situazioni di incertezza e di paura. Per “incertezza” intendiamo la carenza, dal punto di vista cognitivo, di dati chiari e stabili; mentre per “paura” una situazione emotiva, segnata da modificazioni fisiche e di comportamento, di fronte ad un vero o presunto pericolo. Il punto è capire, nel nostro caso, come gli ambienti sociali, politici, istituzionali generano e amplificano incertezze e paure o come le riducono e le controllano. Farò un esempio a portata di mano. La tendenza dei mezzi di comunicazione è, ogni giorno, parlare degli aumenti dei casi positivi, precisando sì che sono in aumento i tamponi effettuati, ma dando raramente la percentuale per poter comprendere la reale curva di diffusione, in rapporto al presente come al passato.
Sembrerebbe, alcune volte, che questo sia fatto per spaventare un po’ e indurre i negligenti a vestire mascherine e adottare le varie misure. Tuttavia il risultato sembra essere quello di aumentare la paura in coloro che già osservano le norme e seguono le notizie; mentre, a margine, va detto che coloro che potrebbero essere spaventati dall’aumento dei casi sono coloro che non si informano tanto e persistono nei loro atteggiamenti irresponsabili. Forse per indurre gli irresponsabili a cambiare atteggiamenti dovremmo usare altri mezzi, sia di comunicazione che di imposizione (inasprimento delle pene e affini). Forse si dovrebbe cambiare un po’ strategia comunicativa e tener presente che abbiamo due grossi gruppi: chi sta facendo il proprio dovere e chi, in ogni strato sociale, continua a infischiarsene di persone e regole.
Le istituzioni hanno il sacrosanto dovere di “controllare l’incertezza” (Mary Douglas, Come pensano le istituzioni), o, più semplicemente, hanno il dovere di ridurre le paure dei singoli. In altri termini sto solo dicendo che le istituzioni esercitano, con tempi e modi diversi, una sorta di “azione di protezione” (Mary Douglas) nei confronti del singolo, tanto da ridurne le sue incertezze e paure. Ma se l’informazione è incompleta o imprecisa o fuorviante questa azione di protezione è vana o potrebbe ottenere l’effetto contrario. Non sono assolutamente un negazionista, né tra quelli che criticano a ogni piè sospinto tutti e tutto: la situazione è così complessa e complicata che non vorrei essere al posto di chi decide. Anzi, credo che, nella misura in cui siamo governati con scienza e coscienza, dobbiamo il massimo della gratitudine a politici, pubblici amministratori, forse dell’ordine, scienziati, medici, infermieri ecc. Dall’altra parte abbiamo anche ragioni oggettive per essere grati: l’Italia sta reggendo bene, non siamo gli ultimi in Europa (anzi) e se non fosse per la precedente e dissennata politica sanitaria che ha colpito duramente la sanità pubblica, staremmo ancora meglio. Tuttavia oggi ci è chiesta una responsabilità comunicativa che coniughi sempre verità e attenzione agli effetti emotivi sul pubblico.
L’indicazione etica è allora quella di recuperare la virtù della veracità, in ogni ambiente e tempo della comunicazione, che è l’amore per la verità, cioè “la volontà che la verità debba essere conosciuta e accettata”, come insegna Romano Guardini (Virtù. Temi e prospettive della vita morale); senza sottoporla a svalutazione a favore del mezzo che la veicola e dei suoi effetti emotivi e senza barattarla con altri interessi. Altrimenti la paura cresce.
*sacerdote della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia politica nella facoltà di Filosofia della Gregoriana
ia fatto per spaventare un po’ e indurre i negligenti a vestire mascherine e adottare le varie misure. Tuttavia il risultato sembra essere quello di aumentare la paura in coloro che già osservano le norme e seguono le notizie; mentre, a margine, va detto che coloro che potrebbero essere spaventati dall’aumento dei casi sono coloro che non si informano tanto e persistono nei loro atteggiamenti irresponsabili. Forse per indurre gli irresponsabili a cambiare atteggiamenti dovremmo usare altri mezzi, sia di comunicazione che di imposizione (inasprimento delle pene e affini). Forse si dovrebbe cambiare un po’ strategia comunicativa e tener presente che abbiamo due grossi gruppi: chi sta facendo il proprio dovere e chi, in ogni strato sociale, continua a infischiarsene di persone e regole.
Le istituzioni hanno il sacrosanto dovere di “controllare l’incertezza” (Mary Douglas, Come pensano le istituzioni), o, più semplicemente, hanno il dovere di ridurre le paure dei singoli. In altri termini sto solo dicendo che le istituzioni esercitano, con tempi e modi diversi, una sorta di “azione di protezione” (Mary Douglas) nei confronti del singolo, tanto da ridurne le sue incertezze e paure. Ma se l’informazione è incompleta o imprecisa o fuorviante questa azione di protezione è vana o potrebbe ottenere l’effetto contrario. Non sono assolutamente un negazionista, né tra quelli che criticano a ogni piè sospinto tutti e tutto: la situazione è così complessa e complicata che non vorrei essere al posto di chi decide. Anzi, credo che, nella misura in cui siamo governati con scienza e coscienza, dobbiamo il massimo della gratitudine a politici, pubblici amministratori, forse dell’ordine, scienziati, medici, infermieri ecc. Dall’altra parte abbiamo anche ragioni oggettive per essere grati: l’Italia sta reggendo bene, non siamo gli ultimi in Europa (anzi) e se non fosse per la precedente e dissennata politica sanitaria che ha colpito duramente la sanità pubblica, staremmo ancora meglio. Tuttavia oggi ci è chiesta una responsabilità comunicativa che coniughi sempre verità e attenzione agli effetti emotivi sul pubblico.
L’indicazione etica è allora quella di recuperare la virtù della veracità, in ogni ambiente e tempo della comunicazione, che è l’amore per la verità, cioè “la volontà che la verità debba essere conosciuta e accettata”, come insegna Romano Guardini (Virtù. Temi e prospettive della vita morale); senza sottoporla a svalutazione a favore del mezzo che la veicola e dei suoi effetti emotivi e senza barattarla con altri interessi. Altrimenti la paura cresce.
*sacerdote della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia politica nella facoltà di Filosofia della Gregoriana