A un anno dalle elezioni che, come si è scritto all’indomani di quel 4 marzo 2018, hanno cambiato la geografia politica italiana, facciamo il punto con Paolo Pombeni, storico e politologo tra i più autorevoli del nostro Paese. Un’analisi che tiene conto dell’esito delle recenti elezioni regionali e guarda inevitabilmente al voto europeo del prossimo maggio.
Nel giro di un anno i rapporti di forza tra i due partiti che avevano parzialmente vinto le elezioni politiche si sono praticamente ribaltati. Eppure questi due partiti hanno governato e stanno governando insieme: com’è stato possibile questo rovesciamento di posizioni?
I risultati del 4 marzo 2018 sono derivati da due dinamiche di fatto convergenti: la richiesta di un ricambio radicale di classe dirigente e un moto di protesta collegato a un sentimento di insoddisfazione generale. La prima spinta ha portato verso la Lega, a cui gli elettori hanno attribuito – a torto o a ragione, ma le storie comunque contano – la capacità di esprimere una classe dirigente alternativa, in virtù delle esperienze di governo nazionale e locale. La seconda ha invece premiato il Movimento 5 Stelle. Con il passare del tempo, però, la protesta generica esige delle risposte e il M5S non è stato in grado di diventare una forza di governo, anche perché non ha gli uomini. Quindi, dei due fattori decisivi nel voto di un anno fa, è rimasto soltanto quello che alimenta il vantaggio della Lega.
Dopo le elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna, qualche analista ha abbozzato l’ipotesi di un ritorno al bipolarismo di tipo tradizionale, tra centro-destra e centro-sinistra, dopo che in questi mesi l’unico bipolarismo possibile - paradossalmente giocato all’interno della coalizione di governo - è apparso quello tra M5S e Lega. Le sembra un’ipotesi realistica?
Nelle due tornate regionali a me pare che emerga piuttosto una frammentazione dell’offerta politica. Parliamo per semplificare di un centro-destra e di un centro-sinistra ma in realtà da una parte e dall’altra quel che si vede è un’Armata Brancaleone. Basti pensare, per esempio, che in Sardegna il centro-destra era costituito da undici liste. Molto spesso, poi, quelle che si definiscono liste civiche sono in concreto dei gruppi di interesse. Il consenso viene costruito intorno a interessi micro-settoriali e lo hanno capito anche i grillini che per la prima volta hanno preso in considerazione la possibilità di apparentarsi con altre liste. È il fallimento del ‘partito a vocazione maggioritaria’, per usare un’espressione nota, in cui le micro-corporazioni accettavano di essere assorbite in un progetto più ampio. Ma è nell’essenza stessa dei partiti di massa, che segnarono proprio il superamento delle fazioni della fine dell’Ottocento, la capacità di raccogliere le istanze sociali e farne una sintesi politica. Oggi, invece, ci troviamo davanti a federazioni di tribù di fedeli a questo o a quello e diventa sempre più difficile governare. Bisognerà attendere i prossimi appuntamenti elettorali per verificare queste tendenze. Le europee da quanto punto di vista sono meno significative, anche per il diverso meccanismo elettorale, ma avremo il voto in Piemonte e un’importante tornata amministrativa. Ci saranno persino due elezioni suppletive in altrettanti collegi del Trentino-Alto Adige per eleggere i sostituti di due deputati (diventati presidente e assessore nella provincia autonoma di Trento, ndr) e in questi casi si voterà con l’uninominale.
Che cosa si aspetta riguardo alla partecipazione al voto? Le ultime regionali hanno fornito dati contrastanti, pur nella comune bassa affluenza che caratterizza il voto locale: ulteriore diminuzione in Abruzzo, lieve crescita in Sardegna.
Non darei molta importanza a questi segnali. Quando si tratta di spostamenti così modesti è verosimile ricondurli alla presenza o meno di interessi corporativi in grado di mobilitare gli elettori.
Per le europee c’è un grande punto di domanda. È un appuntamento giocato molto sul voto di opinione.
Non mi pare che al momento ci sia in giro molta consapevolezza sul significato di queste elezioni, né un grande trasporto per il confronto tra europeisti e anti-europeisti. Anche per quanto riguarda l’affluenza alle urne, comunque, sarà interessante verificare quel che accadrà laddove il voto europeo coincide con quello locale.
Il raffronto con il voto di un anno fa suggerisce anche a un altro tema di fondo: l’estrema volatilità dei consensi elettorali.
È un altro aspetto su cui i partiti si ostinano a non ragionare. Siamo dentro una grande transizione e gli elettori, non sapendo dove si andrà a finire, si buttano un po’ di qua e un po’ di là, alla ricerca di quel che sembra più convincente e tranquillizzante.
È come se si fosse persa la capacità di convergere su un progetto condiviso in grado di stabilizzare il sistema.
Le propongo due esempi tipici. Primo, il fallimento dell’ipotesi di riforma costituzionale. Si è parlato per anni della necessità di aggiornare il funzionamento di alcune istituzioni e poi, quando è arrivato il momento di cambiare, tutto si è bloccato. Secondo, l’autonomia differenziata. Anche in questo caso si è parlato per anni della necessità di superare il centralismo e poi, arrivati al dunque, è emersa la paura di spaccare il Paese, come se il Paese oggi fosse realmente unito… Ovviamente bisogna fare i passi giusti, con senso di responsabilità. Quel che voglio dire, però, è che non si può tenere tutto fermo. Il rischio è di incrementare la palude in cui già ci troviamo.