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Sembra ormai lontana la pandemia di Covid-19, e con essa le restrizioni e tutti gli accorgimenti resisi necessari per limitare i danni, ed invece è ancora presente in molte persone, soprattutto dal punto di vista psicologico, con ferite più o meno gravi che hanno segnato l’animo di ognuno, lasciando una traccia che ognuno affronta in modo diverso.

 


 

“Dopo la fine della pandemia mi sono resa conto che c’era stato un disturbo da stress post traumatico di dimensioni globali”,sono le parole di Vittoria Lugli, psicologa, psicoterapeuta, esperta di terapia sistemico-relazionale e, fino a dicembre scorso, responsabile dell’Ufficio per la tutela dei minori per la diocesi di Roma, che da poco ha pubblicato il libro “In volo con le emozioni. Un nuovo approccio per gestire le emergenze della vita” (ed San Paolo), nel quale si spiega un tipo di psicologia meno diagnostica e maggiormente addestrativa, sviluppato dopo la sua collaborazione con l’Aeronautica militare italiana per la formazione dei piloti cacciabombardieri sugli inconvenienti di volo e nell’impiego in operazioni fuori area.

“Per tante caratteristiche, la pandemia è stata una vera e propria guerra, soprattutto mentale”, dichiara la psicologa che attraverso il suo libro vorrebbe insegnare in maniera pratica e concreta ad adolescenti e adulti, come gestire la propria parte emotiva e riscrivere il proprio cervello. “Oggi abbiamo una società che ci ha reso un po’ analfabeti dal punto di vista emotivo. Siamo iper specializzati solo quando le emozioni diventano una patologia, e non eravamo pronti all’idea di fare un allenamento, un addestramento ad ascoltare le nostre emozioni, soprattutto l’ansia, la paura e la rabbia che sono emozioni che non hanno solo un significato patologico”.

Troppo facilmente le diagnosi stabilirebbero il ricorso ai farmaci per i ragazzi, ai quali sarebbe invece meglio insegnare il significato delle proprie emozioni, visto che anche avere paura potrebbe essere essenziale per salvarsi la vita. Questo è ben spiegato nell’addestramento dei piloti che, non potendo utilizzare nessun tipo di farmaco, si allenano a gestire la parte emotiva. “La diagnosi non mi dice niente del territorio e di che cosa sta succedendo, è solo un assemblaggio di sintomi e, soprattutto in tempi di post pandemia dove i nostri ragazzi sono stati chiusi in casa anni con la didattica a distanza, con l’isolamento, non vale fare la ricerca sui sintomi, serve aiutarli ad ascoltare le loro emozioni, capirne il significato e imparare a gestirle”. Per questo motivo l’utilità di un’educazione all’ascolto delle emozioni, si potrebbe pensare anche per gli insegnanti delle scuole che, come tutti, dovrebbero rendersi conto di una società globalizzata in cui è tutto cambiato, anche la velocità di prestazioni ed emozioni che si provano. “Sarebbe importante che gli insegnanti conoscessero molto delle neuroscienze, della plasticità del cervello, per capire anche gli effetti collaterali che stanno generando tutti i dispositivi. Solo la conoscenza ci dà potere e magari, come succede in molte scuole in Italia, consegnare il cellulare all’entrata e restituirlo all’uscita. Queste regole aiutano poi a interiorizzare, constatando la differenza dei livelli di ansia tra quando hai un cellulare accanto e quando non ce l’hai. Sono tutte cose nuove che dobbiamo regolamentare per tentativi ed errori”.

Il cellulare senza regole rischia di creare un fenomeno di dipendenza, condannandoci ad un deficit di tipo cognitivo che già si sta registrando, esponendoci al rischio di mancanza di empatia che significa guardare solo a se stessi senza accorgersi dei bisogni dell’altro.

 

 

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