Gli ultimi dati Istat su occupazione e disoccupazione hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a chiunque abbia a cuore il bene del Paese. Il tasso di occupazione ha raggiunto il 59%, il massimo rispetto alle serie storiche delle rilevazioni, e quello di disoccupazione è sceso al 9,9%, il livello più basso dal febbraio 2012, un decimale sotto la soglia simbolica del 10%.
Certo, il dato della disoccupazione resta ben al di sopra della media europea (7,5%) e ci colloca ancora in coda alla classifica: soltanto in Spagna e in Grecia risulta più elevato. Il che sarebbe già sufficiente per moderare gli entusiasmi. Ma ulteriori e più puntuali motivi di riflessione arrivano da un’analisi in profondità dentro e intorno a questi numeri. Così com’è accaduto nelle precedenti stagioni politiche, anche in questo caso è doveroso andare oltre la superficie dei dati per coglierne gli eventuali aspetti problematici, nella fase attuale e soprattutto in prospettiva. Tanto più se si considera l’andamento complessivo dell’economia: siamo praticamente fermi e sarebbe irrealistico ipotizzare per il futuro una ripresa significativa in assenza di una robusta politica di sostegno agli investimenti. Così che anche il quadro occupazionale potrebbe cambiare di segno.
Innanzitutto essere molto prudenti nell’attribuire a questo o a quel provvedimento virtù taumaturgiche. Si tratta di processi lenti, a maggior ragione con un mercato del lavoro poco reattivo come il nostro.
I dati di oggi, nel bene e nel male, sono il frutto anche di quel che è stato fatto o non è stato fatto ieri e l’altro ieri.
Che la crescita dell’occupazione sia tutta concentrata tra gli ultracinquantenni, per esempio, si può almeno in parte spiegare con gli effetti delle riforme pensionistiche – ultima quella della legge Fornero – che hanno trattenuto sul posto di lavoro una quota rilevante di occupati. Sullo sfondo, ovviamente, c’è il grande tema dell’invecchiamento della popolazione e del declino demografico. Nella fascia 35-49 anni l’occupazione è diminuita su base annuale di circa 208mila unità.
Bisogna poi leggere i dati mettendoli in connessione con altri elementi rilevati dalle statistiche.La grande crisi non ha prodotto soltanto disoccupazione, ma anche forti e prolungate riduzioni di orario (e quindi di retribuzione). La chiamano “occupazione a bassa intensità”. Se nella media del 2018 il numero degli occupati ha superato di 125mila unità quello del 2008, nei primi tre trimestri dello scorso anno mancavano rispetto a dieci anni fa poco meno di un miliardo e 800 milioni di ore lavorate. Un valore che corrisponde a oltre un milione di posti di lavoro a tempo pieno di cui si è persa traccia nel decennio.
Un altro elemento che fa riflettere è il balzo compiuto dal numero di ore di cassa integrazione straordinaria (Cigs), che tra maggio 2018 e maggio 2019 è cresciuto del 35%. La Cigs, a differenza di della cassa integrazione ordinaria, riguarda le crisi strutturali delle aziende, non quelle transitorie, e per questo viene considerata una sorta di anticamera della disoccupazione. Questo dato si può mettere in rapporto con il numero dei “tavoli di crisi” aperti presso il Ministero dello sviluppo economico: erano 138 a gennaio e sono diventati 158, ma il numero è in costante aggiornamento. Si stima che i lavoratori coinvolti siano circa 210mila, secondo i sindacati 300mila, ma bisogna tener conto di come viene valutato l’indotto, soprattutto nel caso di aziende di grandi dimensioni. Nell’elenco, per dire, ci sono giganti come l’Ilva o l’Alitalia.
Tutto da approfondire è il capitolo della tipologia dei rapporti di lavoro. La variazione positiva segnalata dall’Istat tra aprile e maggio di quest’anno (+0,3%) è pari a 67 mila occupati in più. Di questi, solo 27mila sono a tempo indeterminato, 41mila sono a tempo determinato o autonomi. Quest’ultima categoria è quella che cresce di più (+28mila) ed è difficile non pensare all’incremento dei lavoratori a partita Iva dovuto al regime fiscale favorevole e alla contestuale fuga dai contratti a termine in seguito ai limiti e ai vincoli più rigorosi stabiliti dal cosiddetto Decreto Dignità. E’ pur vero, però, che se si considera il trimestre marzo-maggio i contratti a tempo indeterminato risultano in aumento di ben 96mila unità. Un dato oggettivamente importante che può essere collegato alla “stretta” normativa sui tempi determinati. Ma non solo di questo si tratta. Si registra infatti, un po’ a sorpresa, una crescita vigorosa di una modalità contrattuale denominata staff leasing o somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Non è una novità – esiste da una decina d’anni – e semplificando la si può descrivere così: le agenzie per il lavoro non si limitano a “girare” i lavoratori alle aziende che ne fanno richiesta per un certo periodo, ma li assumono in proprio, a tempo indeterminato. I lavoratori restano dipendenti dall’agenzia anche quando vengono impiegati in aziende esterne, presso le quali beneficiano del medesimo trattamento dei pari livello. Tra un impiego esterno e l’altro ricevono comunque una “indennità di disponibilità”. Secondo l’ultimo bollettino di Assolavoro, l’associazione di categoria delle agenzie, tra luglio 2018 e aprile 2019 i contratti in staff leasing sono aumentati di 30,5mila unità su 105mila occupati in più a tempo indeterminato (elaborazione Assolavoro Datalab su dati Istat e Formatemp). Un contributo numerico molto significativo al dato complessivo dei contratti stabili, mentre finora si era trattato di un fenomeno marginale. Un salto che richiederà una maggiore attenzione sia a livello statistico che sociale, per verificarne l’impatto sul mercato e sull’organizzazione del lavoro. “A nostro avviso la lettura corretta è che lo staff leasing stia sostituendo la somministrazione a termine e i contratti a tempo determinato - spiega Livia Ricciardi della Cisl nazionale - e in questa chiave tutto sommato al momento non ci sembra preoccupante. È a tutti gli effetti un contratto a tempo indeterminato e, come per tutto il lavoro a somministrazione, è protetto da una doppia contrattazione nazionale, quella che riguarda le agenzie e quella relativa alle aziende. Ci preoccupano molto di più le false cooperative o le false partite Iva, tanto per fare un esempio”.