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“L’Italia è un Paese multireligioso, ma non se ne vuole accorgere. Si percepisce ancora soprattutto a livello di classe politica dirigente come un Paese monocolore e fa fatica a capire che questo pluralismo non è una minaccia ma una risorsa sociale”.

È Paolo Naso, professore nel dipartimento di Storia, culture e religioni della Sapienza, a scattare la “fotografia” che emerge dal libro-indagine “Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione”. Scritto insieme al sociologo dei processi migratori, Maurizio Ambrosini, e al direttore del Centro Studi “Confronti”, Claudio Paravati, il testo contiene un’indagine inedita condotta sugli imam presenti nel nostro Paese. La ricerca ricorda che i luoghi di culto islamici presenti in Italia oscillano attorno agli 800 e i 1.250. Considerando che ogni imam spesso guida più di una sala di preghiera, si può affermare che siano circa 1.000 quelli presenti nel nostro Paese. I dati che emergono dall’indagine sono il risultato di interviste con questionario fatte a 52 imam.

Quasi tutti sposati. Pochissimi separati o divorziati

Dalla ricerca, è possibile stilare un primo profilo. Riguardo l’età, la gran parte degli imam d’Italia intervistati ha una età classificabile nella “maturità”: oltre un terzo, il 38,5%, ha un’età compresa tra 45 e 55 anni; un altro terzo tra 36 e 45 anni, mentre i giovani (con età inferiore ai 35 anni) sono solo il 10,5%. Ben il 41,1% proviene dal Marocco. Seguono la Tunisia (15,7%) e l’Egitto (11,85). Le guide spirituali che hanno nazionalità italiana sono solo circa il 9,8%.

Interessante il dato sulla data di arrivo nel nostro Paese: superano la metà del totale (con il 55,6%) gli imam giunti in Italia intorno agli anni ‘80 e ‘90, un dato che segnala un certo radicamento sul nostro territorio. Si spiega così perché la metà degli intervistati (il 53,1%) ha un’ottima conoscenza della lingua italiana e buona per circa un terzo di essi, il 32,1%. Solo il 4,2% delle guide spirituali non parla italiano, perché di recente ingresso nel Paese, affermando tuttavia di studiare la lingua. La quasi totalità (il 91,6%) è costituita da uomini sposati (il 6,3% è celibe e il 2,1% separato o divorziato).

Gli imam a tempo pieno e l’elevato grado di istruzione

Anche le attività lavorative rivelano un certo grado di integrazione: solo un’esigua minoranza (il 4,2%) è inoccupata. Un quarto degli imam, il 27%, è costituito da persone che svolgono un lavoro subordinato, maggiormente operai. Gli altri sono liberi professionisti, titolari di imprese, addirittura docenti universitari. C’è poi un 22,9% (un quarto del totale) per cui il ruolo di imam rappresenta un lavoro a tempo pieno e retribuito e ciò costituisce un fattore che getta soprattutto nell’immaginario collettivo un dubbio sui legami con “agenzie” estere in grado di stipendiare alcuni imam in Italia. La ricerca evidenzia anche l’elevato grado d’istruzione: il 44,3% degli imam intervistati ha conseguito un titolo pari o superiore alla laurea. E oltre un terzo, il 34,4%, ha conseguito un diploma di studi superiore o titolo equiparabile. Coerentemente al livello di istruzione, la ricerca evidenzia anche che oltre i due terzi degli imam, il 68%, ha una buona conoscenza della Costituzione italiana. In controtendenza, i due terzi, il 66,1% non ha mai svolto una formazione teologico-dottrinale.

Non solo guida spirituale 

L’imam svolge un ruolo complesso e “multitasking”. Dalle interviste effettuate, i ricercatori hanno dedotto 3 profili. L’imam mediatore, colui cioè che si assume l’onere di rappresentare la comunità dei fedeli presso le istituzioni, amministrare le offerte raccolte, arrivando in alcuni casi anche ad assicurare ai fedeli servizi di assistenza legale, soprattutto volte al rinnovo del permesso di soggiorno. C’è poi “l’imam fai-da-te”: dalle testimonianze raccolte, i ricercatori hanno evidenziato come molti musulmani hanno scoperto la fede o siano diventati più praticanti di quanto non lo fossero nel proprio Paese di origine, nell’esperienza migratoria. Dio diventa “un rifugio” ed essendo questi imam privi di una formazione teologica – solo il 39,9% ha compiuto studi in tal senso – la ricercano in una formazione autodidatta. Costituisce pertanto una minoranza il terzo profilo dell’“imam-teologo”, colui cioè che ha frequentato una scuola islamica nei Paesi di origine o altrove (dalle testimonianze emerge la Francia).

Non un problema ma una risorsa 

Dalla ricerca - sottolinea Paolo Naso - emerge una realtà straordinariamente ricca. Dietro ad ogni comunità religiosa (cristiana, islamica, sikh…), c’è un patrimonio sociale estremamente complesso, fatto di attività benefiche, progetti umanitari, impegno nei processi di integrazione, corsi per l’alfabetizzazione e la conoscenza della lingua italiana. Tutte iniziative che hanno un impatto sociale positivo sia sulla comunità degli immigrati sia sulla comunità degli italiani”. Significa che l’appartenenza religiosa degli immigrati “non è un problema ma una risorsa sociale a beneficio di tutti”.

“Il messaggio che lanciamo alla classe politica primariamente - prosegue Naso - è un invito a fare un tuffo nella realtà”. “Vi troveranno storie molto belle di emancipazione, di servizio, di contributo alla costruzione di un sentire comune nazionale che comprende anche le comunità religiose degli immigrati. Molti di loro sono orgogliosamente italiani, ancora purtroppo solo nella sostanza, e non nella forma giuridica”.

 

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