Siamo proprio sicuri che l’azione di questo governo vada incontro alla sacrosante domande di sicurezza, di legalità, di tutela della salute, di crescita economica, di lavoro che la società pone alla politica e soprattutto alle forze politiche che hanno vinto le elezioni del 4 marzo?
Proviamo a fare qualche esempio. Iniziamo dal cosiddetto decreto Salvini che, tra le altre, mette insieme norme in tema di diritto d’asilo, di cittadinanza, di sicurezza pubblica e di mafia.
Va subito chiarito che il decreto in questione non affronta il tema dell’immigrazione, come erroneamente viene fatto credere, ma riforma - in realtà si tratta di un passo indietro - la legislazione relativa al diritto d’asilo. Esso si rivolge infatti ai rifugiati, cioè ai beneficiari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta di una estensione del classico diritto d’asilo come diritto alla protezione internazionale, originariamente circoscritto ai soli casi di persecuzione individuale per motivi politici, religiosi, di etnia. La protezione umanitaria, introdotta in Italia vent’anni fa dalla Legge Turco-Napolitano, è uno strumento flessibile e abbastanza discrezionale cui si è fatto ricorso per riconoscere uno status legale a persone che non riuscivano a dimostrare di essere state perseguitate individualmente, ma provenivano da Paesi pericolosi o instabili a causa di continue guerre civili o potevano correre gravi rischi se venissero rimpatriate”. Un caso tipico di protezione umanitaria è stata quella accordata a donne sole con bambini. Ebbene il decreto Salvini limita il riconoscimento dello status di rifugiato solo ad alcuni casi: gravi problemi di salute, vittime di violenza domestica, di grave sfruttamento, di catastrofi naturali o per meriti civili nel nostro Paese.
Come giustamente osservava l’Avvenire del 25 settembre scorso, la nuova disciplina del diritto d’asilo solleva diverse questioni. Innanzitutto una questione di legalità in quanto le nuove norme si discostano dalle indicazioni del diritto internazionale. Poi una questione di efficacia in quanto produrrà facilmente un aumento delle persone sbandate nelle nostre città. Infine una questione di utilità in quanto aumentare il numero di irregolari non aumenterà né la sicurezza né l’ordine nelle nostre comunità. Con il decreto Salvini, in definitiva, assistiamo all’ennesimo episodio di strumentalizzazione di situazioni di debolezza per fini di mero consenso politico. Non solo, l’accoppiata dei temi rifugiati e sicurezza rischia di far passare un messaggio ambiguo e pericoloso: quello che i rifugiati non sono persone da proteggere ma una minaccia per chi le accoglie.
In generale, sul tema immigrazione sarebbero davvero utili due cose: innanzitutto abbandonare l’idea che si tratti di una emergenza (i numeri del fenomeno lo dimostrano in maniera chiara), riconoscendo invece i tratti di un fenomeno globale con il quale fare i conti; inoltre realizzare un equilibrio tra i diritti dei residenti alla propria sicurezza e condizione sociale e l’aspettativa dei migranti a migliorare le proprie condizioni di vita, attraverso la riapertura dei canali legali di emigrazione con la relativa programmazione dei flussi. In concreto questo comporta politiche di integrazione efficaci, la fine della tratta di esseri umani, il riconoscimento che venire in Italia non è un diritto ma una opportunità.
Il decreto dedica poi un capitolo alla gestione dei beni confiscati alle mafie. Oltre a porre mano ad alcuni aspetti organizzativi dell’Agenzia nazionale, la novità, si fa per dire, è la previsione della vendita dei beni confiscati. Si tratta di una disposizione già prevista dall’attuale legislazione come ultima opzione, dopo che il Comune nel cui territorio insiste il bene ha ritenuto di non affidarlo in gestione ad associazioni del territorio oppure di non utilizzarlo per propri fini istituzionali. Aver disposto la vendita del bene confiscato come scelta univoca contraddice la finalità stessa della confisca: restituire alla comunità il frutto dei reati. Non solo, tale scelta rende più facile al mafioso tornare a disporre del bene mediante l’acquisto da parte di un prestanome.
Ancora una volta il senso comune prevale sul buon senso. Ancora una volta la finzione prevale sulla realtà. Sulla stessa lunghezza d’onda, purtroppo, si muovono altre decisioni del governo contenute nel decreto “milleproroghe” e riguardanti il tema della vaccinazioni e quello delle periferie. Sulle vaccinazioni, riaffermando la possibilità dell’autocertificazione sino al marzo 2019, di fatto, si invitano i genitori che non intendono aderire al programma sanitario ad eludere l’obbligo. Ne derivano almeno due gravi conseguenze: viene snaturato l’istituto dell’autocertificazione fondato su un nuovo rapporto non vessatorio tra lo Stato e il cittadino e in secondo luogo si favoriscono potenziali conflitti tra genitori di figli che sono nella stessa classe, fomentati dal sospetto che l’elusione ci sia e che i controlli non funzionino.
Il Piano periferie promosso dal precedente governo di centrosinistra aveva visto il Comune di Lecce beneficiario di 18 milioni di euro per la realizzazione di progetti di riqualificazione delle proprie periferie. Il decreto milleproroghe, praticamente sottrae al bilancio del Comune questa somma. La logica sottostante il Piano era molto semplice: un euro alla cultura è un euro per la sicurezza. Sottrarre investimenti volti a contrastare il degrado sociale delle periferie equivale a rendere più insicure le periferie. È evidente che se si vuole combattere, non solo dal punto di vista delle repressione, il malessere che domina molte periferie delle nostre città, è necessario incoraggiare i Comuni a impegnarsi in programmi di contrasto alle povertà culturali che alimentano i fenomeni di devianza.