Un recente rapporto di Unioncamere offre l’ennesima fotografia della società e dell’economia pugliese e nell’ambito di queste, la fotografia della società e dell’economia salentina.
Si tratta di una disamina fatta di cifre, percentuali, curve, che si aggiunge a tante altre che altre istituzioni periodicamente propongono: dal Censis alla Banca d’Italia allo Svimez, per citare quelle più affermate. Ebbene, il quadro che emerge da questi rapporti, alla fine, è sempre lo stesso. Proviamo ad evidenziarne i tratti più significativi.
Partiamo dalla società salentina. Nell’ultimo quinquennio in Puglia, la provincia di Lecce presenta il tasso di natalità più basso e il tasso di mortalità più alto, con un saldo negativo doppio rispetto a quello della media pugliese (-3,1% rispetto alla media pugliese di -1,6%). Il tasso di crescita totale della sua popolazione, al netto del saldo migratorio (chi emigra e chi arriva) registra un -2,7%. L’età media della popolazione salentina è di 45 anni e 3 mesi, quella pugliese di 44 anni e 1 mese, quella italiana 44 anni e 9 mesi. In provincia di Lecce c’è 1 bambino (0-14 anni) ogni 184 anziani (da 65 anni in su); in Puglia c’è 1 bambino ogni 158 anziani.
Gli stranieri (leggasi immigrati) rappresentano nel Salento il 3% della popolazione. Negli ultimi cinque anni si registra un +64% di presenze, nella media pugliese. Le nazionalità più rappresentate sono nell’ordine: rumena (27%), albanese (18%), marocchina (7,4%) e cinese (4,4%).
In provincia di Lecce, rispetto alle altre province pugliesi, si registra perciò il più alto indice di invecchiamento della popolazione a cui si accompagna il più alto indice di spopolamento e una modesta presenza di immigrati, se confrontata con la media nazionale pari all’8,3% (la più bassa rispetto a quella degli altri grandi Paesi europei).
L’economia salentina considerata dal punto di vista delle imprese attive, a confronto con quella delle altre province pugliesi, è prima nei settori delle costruzioni (6,7%) e dei servizi (80,1%) ed ultima in agricoltura (2,2%) e in industria in senso stretto (11%).
Nell’ultimo quinquennio gli occupati in provincia di Lecce sono diminuiti del 7,4%, passando da 241.000 a 223.00. I disoccupati, al contrario, sono aumentati del 4%, passando da 53.700 a 64.200.
Da questa sintetica rappresentazione di cifre e percentuali, si possono ricavare alcune riflessioni. Una popolazione che invecchia e decresce è indice di un evidente malessere sociale che si chiama questione giovanile e questione familiare. La questione giovanile si declina essenzialmente come mancanza di opportunità, insufficiente valorizzazione dei talenti e il conseguente esodo giovanile, specialmente di laureati, verso nuove terre promesse. La manna del reddito di cittadinanza, in una economia che non cresce, se non in alcuni settori di nicchia, spingerà i giovani disoccupati salentini a sopravvivere e ad ingrossare le schiere degli “estrattori di rendita” che rappresentano il vero ostacolo allo sviluppo del nostro territorio. Sono presenti in tutti i campi, economico, sociale e tanti in quello politico. Chi sono? Sono quelli incapaci di guardare più in là del loro immediato tornaconto, preoccupati unicamente di conservare la posizione consolidata nel tempo e funzionale a soddisfare gli interessi della proprio clan, della propria associazione, del proprio accampamento politico. Quelli che con le loro scelte finiscono per distrarre le risorse da destinare allo sviluppo del territorio.
E gli innovatori che fine fanno? Che fine fanno le giovani intelligenze che si formano nei nostri licei e nella nostra Università? E quelle che eroicamente decidono di rimanere?
Una economia, poi, fondata essenzialmente sui servizi vuol dire che, al netto delle attività legate al turismo, al commercio, alle banche, alle assicurazioni e ai trasporti, è una economia dipendente dalla pubblica amministrazione.
Oltre il renvanscismo borbonico, che fumettisticamente attribuisce la causa ultima della cosiddetta questione meridionale all’unità di Italia e distoglie l’attenzione dalle vere ragioni della arretratezza del sud, c’è da chiedersi se nonostante gli ingenti flussi finanziari che hanno coinvolto e continuano a farlo il nostro territorio, il problema vero non sia quello della mancanza di risorse, ma quello di una classe dirigente non all’altezza delle sfide. Dovremmo essere stanchi di conoscere la quantità (enorme) di fondi comunitari impegnati per la crescita delle imprese, per lo sviluppo del territorio, se poi nessuno è in grado di dirci gli effetti concreti che quei soldi producono nella vita delle persone.
E non sarà “il salvatore della patria” di turno che potrà risollevarci, ma soltanto la nostra capacità di costruire solidi legami comunitari. La nostra capacità di vivere i doveri con la stessa intensità con la quale rivendichiamo i nostri diritti. Senza capacità di costruire futuro non salveremo né le famiglie né le nuove generazioni.