Cinquant’anni fa esplose la rivoluzione culturale del ’68. Essa venne a conclusione di un decennio di grandi cambiamenti nei costumi e nella mentalità.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia compì uno sforzo enorme per risollevarsi dalle macerie e sembrò avviarsi verso un’era di pace, sicurezza, ricchezza e comodità. Ciò, però, nascondeva una diffusa situazione di insoddisfazione, soprattutto giovanile, derivante dalla disgregazione dei valori dominanti, progressivamente erosi da un modello di “società opulenta” incapace di rispondere ad attese di profilo diverso dall’innalzamento del livello materiale di vita.
In questo humus sociale cresce il rifiuto dello stile di vita vagheggiato dalla cultura liberal-illuminista predominante in Occidente, che si manifesta nelle giovani generazioni in un desiderio di libertà dal mondo e dalle regole ereditati dai padri. È “la cultura della rivolta” che si propaga liberamente nelle scuole e da lì nell’intera società. In quegli anni si innescano nuove conflittualità, che allargano il quadro di azione classico della “lotta di classe”, proletari contro borghesi, coinvolgendo nuovi soggetti: giovani contro vecchi, studenti contro insegnanti, figli contro genitori, moglie contro marito, uomo contro donna. Questa conflittualità “allargata” ha come obiettivo la famiglia, luogo in cui si forma l’uomo e, di conseguenza, l’educazione quale modo di trasmissione di valori condivisi. Ribellione giovanile, contestazione scolastica e soprattutto rivoluzione sessuale, furono alcuni dei chiavistelli con cui si inizia a scardinare la cellula fondamentale della società.
Il ’68 inaugura una nuova fase rivoluzionaria, che si manifesta come rivoluzione “in interiore homine”, la quale sovverte i comportamenti individuali e collettivi, con un processo di progressiva distruzione di ogni legame vitale, con Dio e con gli uomini, fino all’esito coerentemente drammatico dell’autodistruzione attraverso la tossicodipendenza o il suicidio.
Questa rivoluzione tende a distruggere ciò che resta della società naturale e cristiana, frutto dell’inculturazione della fede in Occidente, fondata sulla concezione dell’essere umano come “immagine di Dio”. Ad essa si cerca di sostituire uno stato di cose basato su una visione del mondo, che considera l’uomo in se stesso una totalità. Ne consegue che l’altro non è visto più come un aiuto per comprendersi e per realizzarsi come persona, ma come una minaccia alla propria identità. Il fine della rivoluzione è quello di formare l’individuo totale che nella sua azione sia come un dio. Il dato naturale, che è un limite oggettivo al desiderio di onnipotenza dell’uomo, deve essere superato. Da qui la lotta contro ogni istituzione naturale e sociale e ogni legame tra gli individui, considerati un limite alla “libertà” del singolo.
Ecco, in quest’ottica, la volontà di distruggere il legame familiare e la sua sostituzione con il “single”.