Sono 1 milione e 482mila le persone, il 2,5% della popolazione residente in famiglia (escluse le convivenze), risultate con IgG positivo, che hanno cioè sviluppato gli anticorpi per il Sars-CoV-2.
Quelle che sono entrate in contatto con il virus sono dunque 6 volte di più rispetto al totale dei casi intercettati ufficialmente durante la pandemia, attraverso l’identificazione del Rna virale, secondo quanto prodotto dall’Istituto superiore di sanità”. Sono i primi risultati dell’indagine di sieroprevalenza sul Sars-CoV-2 condotta dal 25 maggio al 15 luglio secondo quanto previsto dal decreto legge 10 maggio 2020 n. 30 “Misure urgenti in materia di studi epidemiologici e statistiche sul Sars-CoV-2”, convertito in legge il 2 luglio 2020. Titolari dell’indagine sono Istat e Ministero della Salute nelle rispettive funzioni, mentre la Croce Rossa ha condotto la rilevazione sul campo con l’aiuto delle Regioni.
Numeri che non sorprendono esperti come Walter Ricciardi, ordinario di Igiene generale e applicata all’Università Cattolica e consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, ma che non possono neppure farci stare tranquilli. Anche se le persone entrate in contatto con il virus sono molte di più dei contagiati ufficialmente intercettati, si tratta “sempre di un numero molto piccolo”.
Professore, i primi dati emersi dall’indagine di sieroprevalenza erano quelli previsti o riservano qualche sorpresa?
Erano quelli che ci aspettavamo: che, da una parte, ci fossero più casi e che cioè l’infezione avesse avuto un decorso asintomatico in molte persone; e, dall’altra, che si tratta di una percentuale minima e che pone, quindi, il Paese in una condizione di grande vulnerabilità perché c’è un’enorme percentuale della popolazione ancora suscettibile al virus. Quindi, nessuna sorpresa.
Le differenze territoriali sono molto accentuate. La Lombardia raggiunge il massimo con il 7,5% di sieroprevalenza: ossia 7 volte il valore rilevato nelle regioni a più bassa diffusione, soprattutto del Mezzogiorno, dove otto Regioni presentano un tasso inferiore all’1%, con i valori minimi in Sicilia e Sardegna (0,3%). Se ci fosse una seconda ondata questo cosa comporterebbe?
Le differenze territoriali, innanzitutto, segnano il successo che hanno avuto le politiche di chiusura, perché, di fatto, è stato evitato il trasferimento del virus dal Nord al Sud. Comunque, non possiamo parlare di seconda ondata, siamo ancora alla prima ondata perché il virus circola. Quello che succederà dipenderà da noi, da come gestiamo la curva epidemica, che abbiamo notevolmente appiattito ma non azzerato. Ma, a differenza della prima fase, questa attuale riguarda tutto il territorio nazionale, in maniera più o meno omogenea. I focolai, anche se sono più numerosi al Nord, sono distribuiti in tutta Italia. Quindi, anche l’azione di prevenzione e contrasto deve essere omogenea. La popolazione del Sud ha avuto meno contagi con il virus, ma in generale i numeri sono talmente bassi che neppure il Nord si può considerare immune. Ribadisco che tutto il popolo italiano, una fetta grandissima al Sud e una grande al Nord, è suscettibile al virus. Quindi, i numeri emersi dall’indagine non cambiano niente in termini di politica preventiva.
L’immunità di gregge, di cui abbiamo tanto sentito parlare, è, dunque, lontanissima?
Sì, in primis, perché neanche sappiamo se ci può essere un’immunità duratura; e poi perché questi che abbiamo detto sono i numeri in Italia.
Se non ci fosse un’immunità per sempre, quale potrebbe essere l’efficacia del vaccino?
Anche se non possiamo ipotizzare un vaccino efficace fatto una volta per tutte, situazione rarissima, ci potremmo accontentare di un vaccino con una protezione duratura, anche se non permanente. Potrebbe essere come i vaccini influenzali che danno una copertura per diversi mesi. La scoperta di un vaccino è molto difficile per questo tipo di virus, perché per larga parte non dà l’immunità permanente.
L’indagine ha evidenziato una forte percentuale di asintomatici: come dobbiamo valutare questo aspetto?
È un fatto assolutamente negativo, perché quando la trasmissione avviene da soggetti asintomatici è meno facile intercettarla e complica molto la capacità di prevenirla.
Professore, malgrado i numeri in crescita in tutto il mondo, aumentano i negazionisti e anche i comportamenti poco prudenti tra le persone, senza il rispetto delle regole di sicurezza. Questi atteggiamenti preoccupano?
Fortunatamente, i negazionisti sono una percentuale molto piccola. L’importante è che coloro che hanno poteri decisionali li ignorino. Laddove i negazionisti addirittura governano, ci sono migliaia di morti. Diverso è il discorso per la popolazione generale, perché non è stato capito che il Covid è un cambiamento epocale, non si può tornare rapidamente alla vecchia normalità. Bisogna cercare di convivere con il virus gestendo i nostri comportamenti in una maniera prudente, pur avendo una vita abbastanza normale, senza stravolgere le nostre abitudini. Basta rispettare il distanziamento fisico, il lavaggio delle mani e l’igiene degli ambienti di vita e di lavoro, l’uso delle mascherine, soprattutto nei luoghi chiusi; altrimenti, la diffusione è destinata a salire.
Comunque, capita sempre più spesso di vedere assembramenti e niente mascherine…
I comportamenti sbagliati mantengono alta e presente la circolazione del virus. Sta a noi, una volta identificato, nell’ambito di questi assembramenti, i soggetti positivi, la capacità di limitare i focolai. Ma quando questi focolai diventano troppi, si corre il rischio di perdere il controllo e di tornare a un’infezione che dilaga. Quando si identificano questi comportamenti che mettono a rischio la salute pubblica devono essere molto rigide le sanzioni.
A settembre riaprono le scuole. Potrebbero esserci problemi?
Dipende da come si gestirà la riapertura. Certamente, è un rischio concentrare milioni di persone in luoghi chiusi, ma abbiamo visto che si può fare quando c’è una circolazione del virus relativamente bassa come da noi, ma poi ci devono essere delle condizioni di gestione che lo rendano meno pericoloso, adottando quei protocolli di sicurezza, come gli arrivi scaglionati dei ragazzi, il distanziamento fisico all’interno delle aule e negli ambienti scolastici, il lavaggio delle mani e la disinfezione degli oggetti, come libri, quaderni e penne con regolare periodicità, l’uso delle mascherine per i ragazzi più grandi oltre che per il personale adulto, l’igiene di aule e ambienti scolastici. La Cina e la Danimarca l’hanno fatto in maniera molto efficace. Non bisogna riaprire le scuole senza precauzioni, invece, come hanno fatto gli israeliani e i francesi, il che ha determinato una concentrazione di casi a partire dalle scuole.
Con la riapertura delle scuole si affolleranno di nuovo i mezzi pubblici: potrà essere un ulteriore problema?
Anche in questo caso sarà fondamentale adottare la triade “mascherina, distanziamento fisico e igiene delle mani”. A ciò si aggiunge la gestione dei flussi di entrata e di uscita dai mezzi pubblici differenziandoli.
Con che spirito possiamo guardare ai prossimi mesi? Con responsabilità e speranza?
Sì, la responsabilità ci porta a guardare il futuro con una certa tranquillità. Ma se la responsabilità viene meno, iniziano i problemi. Il virus continuerà a circolare per mesi. Perciò, dobbiamo essere responsabili e vigili, gestendo in maniera tale da non dover rivedere quelle scene terribili ed essere costretti a prendere decisioni molto forti come a marzo.