Tik Tok è uno dei social più seguiti dagli adolescenti. In questa piattaforma, imperversa un gioco chiamato "Blackout challenge", una prova di soffocamento estremo: consiste nello stringersi attorno al collo una cintura e resistere il più possibile, restando in diretta streaming sul social in gara con altri adolescenti.
L’altro giorno a Palermo una ragazzina di 10 anni è stata dichiarata in morte cerebrale dopo che i genitori l'hanno trovata priva di sensi in bagno, ancora col cellulare acceso e la cinta dell'accappatoio stretta attorno al collo. Noi ci occupiamo di discorsi di odio, e in senso stretto questa terribile vicenda non può essere ricondotta ad un episodio di hate speech. Tuttavia c'è un elemento in comune con il nostro tema: la responsabilità dei gestori delle piattaforme social. Ci sono voluti gli incidenti ed i morti davanti a Capitol Hill a Washington per convincere Facebook, Instagram e Twitter a chiudere gli account dell'odiatore seriale Donald Trump: troppo tardi, troppo poco.
Ed ora Tik Tok deve affrontare lo stesso dilemma: sino a quando una piattaforma potrà nascondersi dietro la "libertà" di postare qualsiasi messaggio, qualsiasi video, qualsiasi gioco potenzialmente mortale? Arriva da Palermo un segnale drammatico, l'ennesimo: il tempo è scaduto, e la proibizione degli hate speech, e di qualsiasi potenziale comportamento rischioso, verbale o fisico non importa, non è più un tema del domani ma dell'oggi.
*direttore del progetto "Oltre l'odio" e del Centro dipartimentale sui discorsi di odio in Rete dell'Università del Salento