Un noto giornalista televisivo in un recente incontro pubblico ha affermato che comunicare equivale a educare. Quale miglior parallelismo può essere utilizzato quando si parla di giovani ed uso dei social media.
Nel lontano, tecnologicamente parlando, 2001 lo scrittore statunitense Marc Prensky, innovatore nel campo dell'educazione e dell'apprendimento, in un suo articolo utilizzava per la prima volta il termine di Nativi Digitali e Immigrati Digitali, identificando con il primo termine coloro che fin dalla nascita hanno vissuto a contatto con i mezzi di comunicazione digitali e le svariate tecnologie. Prensky attribuisce l'appellativo Nativi Digitali ai ragazzi nati dopo il 1985, l'anno che segna il passaggio cruciale dovuto alla diffusione di massa dei computer e soprattutto dei primi sistemi che prevedevano un'interazione grafica con il computer. Tutte le persone nate prima di questa data sono definiti immigrati digitali persone che si sono approcciate al linguaggio digitale soltanto in una fase successiva della loro vita. I nativi digitali sono dunque i madrelingua di questo linguaggio. Prensky, in un articolo successivo, del 2009, ripensa sostanzialmente tali affermazioni preferendo utilizzare i termini di Svelto Digitale, Saggio Digitale e Stupido Digitale. Questi termini definiscono i vantaggi derivanti dall’uso delle tecnologie digitali le quali permettono di accedere alla conoscenza in una misura superiore rispetto a quanto le normali potenzialità consentono. L'utilizzo della tecnologia serve per migliorare le nostre capacità ma al contempo bisogna tener presente che non può sostituire la capacità di giudizio o l'intuizione stessa ma piuttosto migliorarle. Saggezza digitale non significa abilità nel manipolare la tecnologia ma capacità di prendere decisioni più sagge perché potenziate dalla tecnologia.
Contrariamente ai saggi digitali, gli stupidi digitali fanno un uso inappropriato della tecnologia, mettendo in atto comportamenti che manifestano quanto meno superficialità. In situazioni di questo tipo si manifesta l’incapacità di valutare le possibili conseguenze.
Nell’attuale contesto possiamo già notare molti comportamenti digitalmente stupidi. Nonostante il termine possa apparire esagerato, rappresenta adeguatamente il comportamento di chi fa un cattivo uso della tecnologia per danneggiare qualcuno piuttosto che per rafforzare la propria saggezza. Stupidità digitale nel non rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni digitali.
Quando si parla di stupidità digitale ci si riferisce al comportamento e non alle persone: chiunque può procedere verso la saggezza digitale rendendosi conto delle ripercussioni del suo comportamento e del potenziale insito nel comportarsi in modo digitalmente saggio.
Ecco che tutto ciò riafferma il concetto del comunicare per educare. Educare all’uso del digitale, soprattutto le giovani generazioni, che utilizzano i social media in maniera intensa senza prendere atto di eventuali conseguenze, fisiche e psicologiche. Conseguenze che, partendo da quella che viene definita cyberstupidity, portano nei media digitali, a sviluppare comportamenti di cyberbullismo. Occorre tenere presente che quando si parla di bullismo la letteratura identifica il fenomeno attraverso cinque caratteristiche: l’intenzione di fare del male e la mancanza di compassione, l’intensità e durata del fatto, il potere del bullo, la vulnerabilità della vittima, l’assoluta mancanza di sostegno che la vittima si trova a vivere. L’avvento dei media digitali e sociali ha comportato una ridefinizione del bullismo classico, tale che oggi è molto difficile distinguere un episodio di bullismo da un episodio di cyberbullismo perché la presenza dei media digitali sociali è così diffusa da entrare a costituire tutte le nostre attività individuali e sociali; è difficile pensare oggi ad un atto di bullismo che non preveda davanti il cyber. Ma quando si passa al cyberbullismo quali sono le caratteristiche che apporta al bullismo tradizionale producendone di fatto un’intensificazione degli effetti. Se ne individuano almeno quattro: la possibilità di nascondersi nell’anonimato è più semplice e comporta un’ulteriore riduzione del senso di responsabilità; l’estensione del pubblico, rendere visibile e perseguibile la vittima da una platea potenzialmente grande quanto l’intera popolazione del social all’interno del quale il messaggio viene postato; prolungamento dell’esposizione, un piccolo video pubblicato nella rete è visibile sempre, 24 ore su 24, per tutta la settimana, per tutte le settimane di un anno, ed è difficile intercettarlo e toglierlo perché è tipico dell’architettura della rete che quel video si diffonda in maniera virale su tutte le pagine e sui profili di tutti coloro che in qualche modo vi hanno avuto accesso; quest’ultimo effetto rende da parte della vittima la percezione, assolutamente drammatica, di una mancanza di via di fuga e, quindi, difficilmente in grado di sottrarsi al bullo.
Non tutti gli atti di cyberbstupidity sono atti di bullismo, gli atti di bullismo per essere considerati tali devono rispondere ad alcune caratteristiche, il cyberbullismo alle cinque ne aggiunge altre quattro che sono specifiche e rendono lo stesso un’emergenza sociale particolarmente problematica perché estendono e spingono alle estreme conseguenze gli effetti.
“Occorre evitare di credere che internet sia uno spazio virtuale in cui i nostri comportamenti, i nostri scritti e le nostre azioni possano avere ripercussioni più lievi rispetto a ciò che accade nella vita quotidiana. Chiarire che la rete è un esempio assoluto di vita reale, seppur digitale per via degli strumenti che utilizziamo, ci consentirà certamente di essere sentinelle attente e fruitori più consapevoli” Da Il cittadino alfabetizzato e le bufale in rete di A. Cartotto e D. Scarampi, Treccani.