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L’indagine statistica promossa dalla Fondazione Foresta nell’ambito del progetto di prevenzione andrologica DiGit, ha messo a confronto 2000 giovani residenti a Padova e a Lecce, appena alla soglia della maturità scolastica. La ricerca ha toccato tematiche pregnanti e attuali afferenti la sessualità, gli stili di vita, le abitudini alimentari, l’uso di sostanze.

I risultati dell’ indagine, evocano uno scenario giovanile istituito sul disorientamento, sulla mancanza di informazione, sulla sfida del rischio e del limite, sull’assenza di desiderio.

Assumendo che tale condizione non può essere generalizzata all’ intero universo giovanile, ma nello specifico, solo al campione estratto dalla popolazione oggetto di studio, mi chiedo se questa possibile deriva giovanile non possa essere inscritta e letta come un precipitato del discorso culturale che attraversa il nostro tempo ipermoderno.

Un tempo che per alcuni aspetti sembra essere istituito sulla logica del “plus godere”, o meglio dell’ imperativo a godere. Dove per godere, non si intende il godimento erotico-sessuale, ma una spinta cannibalica al consumo dell’oggetto, alla ricerca compulsiva del gadget invidiabile, alla performance perfetta sul lavoro, nelle relazioni amicali, nella rete sociale.

I ritmi serrati a cui dobbiamo rispondere per mantenere salda la presa sul mondo, ci impongono spesso una corsa cieca, senza sosta e senza una meta soggettivata, riconosciuta cioè come propria e connessa con i nostri desideri più autentici e profondi.

Si corre, si consuma, e lo si deve fare in fretta. E in questa rincorsa bulimica alla “cosa” il rischio più grosso è quello di riempirsi di oggetti e di rimanere affamati di relazioni, di desideri, d’amore, di affettività.

Questa condizione iperattivante imposta dal discorso culturale ipermoderno, può produrre angoscia, solitudine, e al contempo evaporazione del senso limite, frantumazione dei punti di riferimento.

I giovani si possono così percepire identità anomiche, alienate, soli tra i tanti, e possono rispondere a questa condizione di vuoto esistenziale, con comportamenti compensatori onnipotenti, come l’ uso di sostanze, di abitudini alimentari iperproteiche, di pratiche sessuali non protette, tesi ad arginare il senso di annichilimento e di impotenza esperito nell’ incontro con l’imperativo egoico del “plus godere” ipermoderno, che ci costringe alla logica della prestazione e della performance perfetta ad ogni costo.

E ancora la tensione onnipotente all’ assenza del limite, evocata dall’ uso delle sostanze, di pratiche sessuali non protette, di una sessualità fluida, può essere letta come un precipitato culturale, un adeguamento ai sembianti sociali e ad un discorso sociale istituito appunto sull’assenza del limite e alimentato dalla logica tossicomanica del “tutto è possibile”, allergica ad ogni forma di castrazione simbolica o se si vuole di rinuncia.

Ecco dunque che il consumo compulsivo e senza sosta dell’oggetto, finisce col diventare il supplente del soggetto, si sostituisce cioè alla relazione, all’affettività, all’incontro con l’altro. Questo aspetto può spiegare il calo del desiderio sessuale, rilevato nel campione dei giovani oggetto dello studio. Spesso nella clinica, a monte del disagio psichico si incontra una condizione di solitudine, di difficoltà a fare legame e relazione con l’altro, con ripercussioni anche sulla sessualità che se non viene alimentata dall’ affettività rischia di diventare consumo di oggetto, di una parte del corpo, consumo dell’altro come altro schiacciato sulla propria gratificazione narcisistica perdendo così la sua portata desiderante istituita invece sull’ incontro con una alterità riconosciuta e accolta nella sua interezza e nella sua irripetibile unicità.

Il nostro tempo è anche il tempo dell’altro che rivela la sua inconsistenza, dell’ altro che si decompone. Saltano i confini, tra genitorialità e figlietà, tra scuola e famiglia, tra istituzioni e comunità; i ruoli e le funzioni educative spesso sono invertite e/o si confondono. È sempre più diffuso il fenomeno dell’ adolescentizzazione, che vede i genitori comportarsi come i figli, frequentare gli stessi luoghi, giocare con gli stessi giochi, utilizzare lo stesso linguaggio. Il genitore perde cioè la sua funzione educativa, di testimonianza, di punto di riferimento per diventare “uno di noi”, per giocare la parte dell’ l’amico del figlio

A partire da queste premesse, quale via mi chiedo, può svelarsi percorribile per ripensare i confini di questo scenario ipermoderno in cui prevale la dimensione del flusso, del concatenamento, e non quella gerarchica della gestione dall’alto dei problemi del disordine.

Come professionisti della relazione d’aiuto, ritengo che siamo in un tempo in cui non sia più possibile estroflettere questo disordine ma siamo chiamati a farci i conti.

Non si può più ricondurre il disordine all’ ordine in modo ortopedico, “aggiustandolo” cioè nel tentativo di riportarlo alla normalità, come se il disordine fosse un cancro appartenente e chiuso nella testa dei singoli individui. Occorre assumere uno sguardo sistemico e culturalista per leggere questo disorientamento come un precipitato dei contesti culturali in cui siamo inscritti.

Si propone dunque,  di interrogarci su che tipo di discorso sociale abitiamo e su come ciascuno di noi contribuisce ad alimentarlo. Si rende perciò necessario incontrare e dialogare con il disordine, per dare al disordine una forma generativa, contrastando la pulsione incandescente alla chiusura e alla negazione dell’altro con la spinta all’apertura e all’incontro con l’altro nella sua interezza; esplorando l’universo giovanile e interessandoci al loro particolare modo di dire qualcosa di sé; interrogando le funzioni genitoriali ed educative e il loro modo di pensarsi genitori ed insegnanti e di pensare il rapporto tra loro.

Una delle possibili strade dunque può essere quella di dare parola a questo disordine e magari scoprire che più che di disordine può trattarsi di un dis-ordine, di un ordine destrutturato, di un diverso ordine, e in funzione di ciò pensare a degli interventi contingenti, situati, ragionando caso per caso in rapporto al contesto di appartenenza, a partire dal riconoscimento della unicità e della particolarità di ciascuna questione.

Per rispondere ad una richiesta personale o di gruppo è  sempre possibile contattare il Consultorio Diocesano “La Famiglia” che offre consulenze e percorsi di educazione all’affettività/sessualità per adolescenti e/o genitori, sito in Lecce alla via Libertini n. 40 - tel 0832.240704 dal lunedì al venerdì dalle  10 alle 12.

*Psicologa clinica a orientamento Psicoanalitico/Culturalista - Psicologa del Consultorio Diocesano la Famiglia via Libertini n.40 Lecce

 

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