Secondo la vulgata maggioritaria, il voto a valanga che il Mezzogiorno ha riservato al M5S si spiega con la voglia, quasi atavica, di assistenzialismo delle popolazioni meridionali, espressione, a sua volta, di una generalizzata predisposizione al lamento e alla rivendicazione di compensazioni e di risarcimenti quale conseguenza necessaria per il fatto di essere ultimi.
Ultimi per ricchezza, per qualità dei servizi, per infrastrutture, etc. In effetti, dall’intervento straordinario in poi, sino alla sperimentazione delle prime politiche di sviluppo locale, le risorse in più destinate al mezzogiorno hanno avuto questa motivazione: contrastare le asimmetrie che condannavano il sud a subire processi di crescita molto più lenti rispetto a quelli delle aree più avanzate del Paese. E tuttavia, nonostante gli ingenti flussi finanziari che dalla Cassa per il Mezzogiorno sino ai fondi strutturali europei che si sono riversati nel sud, la questione del ritardo meridionale resta in tutta la sua portata di questiona nazionale. Colpa dei meridionali? Delle loro classi dirigenti? Della cattiva politica? Del familismo, tratto tipico della società in tutti i suoi livelli? Dello scarso capitale sociale? Della criminalità organizzata? Di una pubblica amministrazione arcaica? Di una naturale inclinazione delle popolazioni a preferire la rendita alla innovazione? Dello scarso senso del bene comune? Certo, quelle elencate, insieme a chissà quante altre ancora, sono plausibili cause di una arretratezza che continua inesorabilmente a spingere il sud verso la periferia di un Paese, l’Italia, che di per se già vive – come ha acutamente osservato il cardinale Bassetti - una situazione di “sospensione”: può progredire, ma potrebbe anche regredire. Tutto dipende da quale “visione” prevale: quella della chiusura, della difesa di un piccolo mondo antico oppure quella della apertura e della rinascita del sogno europeo. E, soprattutto per la società meridionale, tutto dipende da quale speranza essa si lascia abitare.
Il voto meridionale ai 5 stelle, in dimensioni che neppure la Dc negli anni d’oro riusciva a raggiungere, con il conseguente prosciugamento del pd, trova in una fragorosa domanda di cambiamento la sua motivazione prevalente. Si, il voto ai 5stelle, esprime nel profondo una speranza: non una generica speranza di cambiamento, bensì quella di un riscatto e di uno sviluppo. Si è trattato, indubbiamente, di una speranza malriposta e poco pensata, ma pur sempre, espressione di una volontà di “prendere le distanze dalla interpretazione rancorosa del passato e del presente”, come ha di recente osservato Panebianco. Si è sempre affermato che il voto nel sud è stato un voto clientelare, di scambio, difficilmente catturabile da una idea di politica come bene comune. Ebbene, da questo punto di vista, le elezioni del 4 marzo hanno rappresentato una grande discontinuità: un pezzo significativo della società meridionale ha voluto esercitare, come mai prima, la libertà di voto: ha voluto dire basta con i cacicchi locali; basta con i loro cerchi magici; basta con la pervasività di una politica che colonizza ogni ganglio della vita delle persone. Un pezzo di società che rifiuta qualunque forma di paternalismo statale, che non è disposta a nascondere i propri vizi dietro un ridicolo revanscismo borbonico paradossalmente contiguo alla cultura nazional-populista. Un pezzo di società civile che non ne poteva più dei soliti politici candidati a tutto pur di conservare la loro fetta di micropotere, con il solito linguaggio inconcludente ma presuntuosamente onnisciente che nascondeva pochezza progettuale e povertà spirituale. I soliti politici che quando li incrociavi per strada cambiavano direzione.
A questo pezzo importante di società meridionale la classe dirigente democratica, che negli ultimi decenni ha egemonizzato l’amministrazione di tutte le Regioni del sud, non ha saputo offrire non dico un disegno ma almeno qualche cenno di politica riformista, tranne rare eccezioni come Guglielmo Minervini, l’assessore alle politiche giovanili e alla trasparenza della Regione Puglia, purtroppo, scomparso qualche anno fa al quale si devono gli unici innovativi interventi di sviluppo dal basso attraverso la valorizzazione dei “bollenti spiriti giovanili”.
Nessuna espressione della politica autoreferenziale è in grado di interloquire con questa società non solo perché non possiede la grammatica giusta ma neppure quella cultura del progetto che ha contraddistinto il grande pensiero meridionalista. Come avverte De Rita “non è questione di casta o non casta; davanti al rischio di deriva occorre una élite competente e capace di farsi carico della crisi”. Occorrono quelle minoranze profetiche di choc di cui parlava Maritain, linfa essenziale della democrazia nei momenti di crisi. Ma per formare queste élite, queste minoranze profetiche occorre una idea generale di società intorno alla quale catalizzare le competenze e le passioni. Una visione che oggi non è dato scorgere. La crisi del Pd si spiega anche in questi termini. Nessuno nel Pd oggi è capace di visione.
Col risultato, che questo pezzo di società civile meridionale, disillusa di fronte alla pochezza pentastellata, si trova davanti ad un bivio: potrebbe rifugiarsi nell’astensionismo o peggio, consegnarsi ormai esausta alle lusinghe demagogiche e perciò estremamente pericolose della Lega nazionale di Salvini. Un epilogo che potrebbe segnare la fine della questione meridionale non per raggiungimento degli obiettivi ma per consunzione della società meridionale.