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Portalecce volentieri ripropone la recensione del volume “Caro fratello vescovo”, apparsa domenica scorsa su “Avvenire” a firma di Claudio Gambassi.

 

 

 

Cita Oscar Wilde il vescovo Vito Angiuli: «La società perdona spesso il delinquente, non perdona mai il sognatore». E prende a prestito l’aforisma per raccontare un sognatore amato e osteggiato, che è stato così controcorrente da essere più volte strumentalizzato ma soprattutto che ha saputo unire radicalismo evangelico e sorriso: Antonio Bello. O meglio, don Tonino Bello, come tutti continuano a chiamare il vescovo pugliese del quale negli anni si sono moltiplicate le definizioni: “campione del dialogo”, “protettore dei dimenticati”, “scrittore ispirato”, “riformatore sociale”, “apostolo della riconciliazione”. Un pastore di cui è in corso il processo di beatificazione e che lo scorso novembre è stato dichiarato venerabile. La società ma anche parte della Chiesa non sempre lo hanno compreso, in particolare nei dieci anni d’episcopato a Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e durante quelli da presidente di Pax Christi.

A quasi tre decenni dalla morte - avvenuta il 20 aprile 1993 a 58 anni - la tomba ad Alessano, che di Bello è stato il paese natale nel Salento, è meta dei suoi figli spirituali (che magari l’hanno conosciuto solo attraverso i suoi testi pungenti) ma anche dei vertici della Chiesa: vescovi, cardinali. E persino di un Papa, Francesco, che gli ha reso omaggio nel 2018. E del presule parlano o scrivono. Il libro Caro fratello vescovo (Palumbi, pagine 604, euro 25,00) raccoglie omelie e discorsi di quanti hanno la missione di guidare la comunità ecclesiale e che su monsignor Bello hanno riflettuto.

A curare il tomo Vito Angiuli, vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, diocesi d’origine del sacerdote, Giancarlo Piccinni, presidente della Fondazione “Don Tonino Bello”, e il sindacalista letterato Vito Cassiano che vive a Tricase, la cittadina dove il venerabile era stato parroco. «Profeta di speranza» lo chiama Papa Francesco che ripropone anche un suo neologismo: “contempl-attivi”. Parola con cui il vescovo avversario dei muri sollecitava a «unire contemplazione e dinamismo». Poi il riferimento al suo continuo anelito di pace che «è convivialità», nota Francesco. «Convivialità delle differenze», aggiunge il card. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, evocando una sua celebre espressione, che lo eleva al rango di «quasi mistico». E ricorda lo «sfogo di una famiglia» che don Tonino aveva raccolto nel dicembre 1992 quando, già provato dal tumore che lo avrebbe ucciso dopo qualche mese, aveva raggiunto Sarajevo sotto assedio per la marcia dei 500: «Io sono serbo, mia moglie è croata; queste mie cognate sono musulmane, eppure viviamo insieme da tempo senza problemi: ma chi vuole questa guerra?».

Nella capitale della Bosnia lo aveva spinto «una convinzione», annota il vescovo Luigi Bettazzi, suo predecessore alla guida di Pax Christi: «Lui diceva: “Se vogliamo veramente la pace, non dobbiamo preparare la guerra, dobbiamo preparare la pace”». Frasi che sembrano di oggi. Come quell’invito alla Puglia a essere «arca di pace e non arco di guerra» mentre la regione veniva militarizzata con i caccia bombardieri dalla potenza distruttiva, ricorda il vescovo Francesco Savino. E va ripreso in mano l’appello a «ribellarsi quando esistono progetti di morte in una comunità» (il card. Matteo Zuppi). Oppure il suo monito ai politici a essere «operatori di pace» (l’arcivescovo Michele Pennisi). Tuttavia, lui è stato ritenuto uno «sbaglio ecclesiale per le sue idee pazze» (il cardinale Francesco Montenegro). Forse perché chiedeva di «sintonizzarsi sui moti di resurrezione» ed era uno di quei pastori che «si lasciano convertire dalle persone comuni» (l’arcivescovo Domenico Battaglia). Anche se, rivela Michele Mincuzzi, defunto arcivescovo di Lecce, un altro Papa lo ammirava, Giovanni Paolo II, che gli aveva detto: «Continui». «Il futuro ha i piedi scalzi», ripeteva per indurre a essere «sul passo degli ultimi» (secondo il titolo di un suo piano pastorale). «Però amare il fratello non significa assisterlo ma promuoverlo» (il vescovo Francesco Lambiasi). E declinare nel concreto l’«etica dei volti» (l’arcivescovo Bruno Forte).

Fra i volti cari al “vescovo fatto popolo” c’erano quelli degli sfrattati accolti in episcopio, dei barboni aiutati per strada, dei tossicodipendenti per i quali aveva realizzato un centro di recupero, dell’immigrato ucciso sulla cui tomba aveva portato un fiore. «Era un appassionato di Cristo e dei cristi poveri», dice il vescovo Domenico Cornacchia che guida la stessa Chiesa di mons. Bello. Ed è il card. Angelo Amato a porre l’accento sullo «stile francescano» di don Tonino (che era terziario francescano).

È stato paragonato a San Martino di Tours, come ha fatto l’arcivescovo Andrea Mariano Magrassi al funerale, o a Mosè, come suggerisce il card. Marcello Semeraro, perché «non poté entrare in quella terra di pace per la quale, nello spirito delle Beatitudini, aveva tanto operato». Nel volume tornano più volte alcune sue massime che avevano avuto come «laboratorio la cappella» del palazzo vescovile dove aveva sistemato lo scrittoio e come «maestro d’arte Cristo nell’Eucaristia» (l’arcivescovo Agostino Superbo).

La “Chiesa del grembiule”, unico paramento della prima messa, è un invito a «non avere paura a piegarci per lavare i piedi» ma senza ridurre la comunità ecclesiale a «schiava» (il vescovo Luigi Martella che aveva guidato la diocesi di Molfetta ed è morto nel 2015). Il grido “Ama la gente” è una «sintesi fra Bibbia e giornale» (l’arcivescovo GianCarlo Maria Bregantini). La “spiritualità dell’esodo” è dovere a «raggiungere coloro che risiedono fuori le mura» (il vescovo Gualtiero Sigismondi). La necessità di “organizzare la speranza” implica «credere alla possibilità di un radicale cambiamento anche quando si è di fronte a situazioni difficili» (Vito Angiuli). E quella di don Tonino diventa «una santità che veste i panni della quotidianità» (il vescovo Nunzio Galantino). Allora viene quasi naturale fra le sue intuizioni «individuare rimandi a gesti, scelte e parole di Papa Francesco», scrive nella prefazione il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, perché «gli uomini che profumano di Vangelo si rassomigliano».

 

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