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Con un piede nella fossa” è il titolo di un pregevole volume pubblicato da Stefano de Carolis, sottoufficiale dell’Arma dei Carabinieri, con una prefazione del procuratore della Repubblica Giuseppe Volpe, che ricostruisce una storia a dir poco singolare, quella della malavita pugliese dal 1861 al 1914. Il libro sarà presentato presso la sala stampa della Camera dei Deputati il prossimo 29 gennaio. 

Dott. de Carolis, com’è nato questo suo studio?

Tutto è partito quando, in un negozio di antiquariato di Milano, mi capitò di vedere delle foto di fine ʼ800 che ritraevano alcuni camorristi baresi. La cosa mi sorprese perché la criminalità organizzata in Puglia è stata sempre considerata un fenomeno recente, nato magari intorno agli anni ʼ80 come propaggine del sistema messo in piedi dal boss campano Raffaele Cutolo. Così ho iniziato un lavoro di ricerca che mi ha condotto, presso l’Archivio di Stato di Bari, ad una scoperta incredibile: un faldone riguardante un processo, celebrato nel 1891 cioè all’indomani dell’entrata in vigore del Codice Zanardelli, in cui erano imputati ben 179 esponenti della malavita pugliese. Si trattò del primo maxi-processo della storia. E destò scalpore, infatti erano presenti giornalisti da tutta Italia e dall’estero.  

 

Ma quando e come la camorra si era impiantata in Puglia?

L’origine delle mafie è questione delicata perché coinvolge fattori storici, antropologici, culturali e sociali. La più remota notizia di un’associazione fondata col preciso scopo di delinquere risale addirittura al 1407 quando, a Toledo, si costituì la “Confraternita della rapina”. È probabile che qualcosa del genere sia giunto da noi in seguito alla dominazione spagnola. Tuttavia è possibile documentare con certezza la presenza delle mafie nel Meridione solo dopo l’unità d’Italia. A tal proposito, è giusto sfatare qualche luogo comune: mafia e brigantaggio, ad esempio, sono cose alquanto diverse e con scarsa correlazione. È errato poi credere che la mala pugliese sia sorta nei quartieri degradati di Bari Vecchia. Gli imputati del 1891 erano tutte persone letterate e con un reddito. Non erano affatto dei disperati che, per povertà, intraprendevano quella strada. A muoverli era la brama di potere e di fare facili guadagni.

Cosa contraddistingueva la malavita pugliese dell’epoca?

È sorprendente ma la mentalità ed il modo di agire dei malavitosi di fine ʼ800 risultano in tutto simili a quelli odierni. Si entrava a far parte dell’organizzazione con un preciso rituale che, il più delle volte, avveniva nelle stesse prigioni. Molto spesso infatti nelle carceri pugliesi la corruzione era massima ed i criminali che vi venivano reclusi erano lasciati purtroppo liberi di fare proseliti. Le parole “Con un piede nella fossa”, che danno il titolo al libro, erano l’incipit del giuramento solenne con cui ci si affiliava. I camorristi del tempo avevano diversi segni di riconoscimento, come il cappello alla sgherra, il fazzoletto camuffo, i calzoni a campana e il tatuaggio sul pene. Erano abilissimi con il coltello e si rendevano protagonisti di episodi di estrema violenza. I loro loschi affari spaziavano dallo sfruttamento della prostituzione alle estorsioni ai danni dei contadini che rischiavano di vedersi bruciare il proprio campo se non avessero pagato. È consolante però vedere come, presso i pugliesi dell’epoca, l’omertà quasi non esisteva e tante volte si offriva il proprio contributo per assicurare questi balordi alla giustizia.

Foto libro Con un piede nella fossa

 

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