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Distante, ma non per questo insensibile alla bellezza di prove insuperabili, espresse sulla carta, al buio, nelle lunghe notti di Praga.

 

 

 

 

Chi si accosta all’opera di Franz Kafka può anche essere lontanissimo dalla sua abitudine a costruire storie infarcite di paradossi, dubbi ed esagerazioni, eppure non può rimanere impassibile di fronte alle cime raggiunte dallo scrittore boemo nelle descrizioni dettagliatissime o nelle immagini create con superba eleganza.

Anche Saverio Simonelli, nel suo ultimo saggio edito da Àncora, dal titolo “Nel mondo di Kafka. Enigmi, allusioni, speranza”, non nasconde lo stupore di fronte alle evoluzioni mirabili dello scrittore, veri gioielli nel firmamento della letteratura mondiale. Ma allo stesso tempo, Simonelli, scrittore e giornalista, vicecaporedattore di tg2000, con una formazione da filologo germanico, riconosce la propria distanza dall’autore e dal suo modello. Un distacco che però non sminuisce l’analisi la quale, anzi, si fa ricca di spunti di riflessione per il lettore, qualsiasi lettore, sia quello che ha amato Kafka sia quello che l’ha a malapena sopportato e non capito.

  

Simonelli, ha sentito più vicino il mondo di Franz Kafka nella stesura di questo saggio?

 

In passato, mi sono sempre occupato di autori con cui avevo affinità, Kafka invece mostra una scrittura e una umanità che sento distanti dalla mia sensibilità. Anche umanamente, rappresenta un modello di scrittore contrario al mio pensiero. Per me, lo scrittore migra temporaneamente in un mondo di immaginazione da cui trae energia, voglia e affettività che si ripercuotono nel mondo reale. Due mondi che Kafka tiene ben distanti. Le sue opere mostrano spesso brani bellissimi, di elevata letteratura, ma a parte alcuni racconti brevi, la concatenazione narrativa non tiene; il fatto di sorprendere il lettore con elementi inspiegabili fa parte del suo fascino, tuttavia dal punto di vista narrativo sono degli arbitri inconcepibili, per di più, per uno scrittore come lui, capace di una precisione superba, proprio come mi soffermo a proposito de Il messaggio dell’imperatore.

 

 

La fortuna di Kafka risiede in questi paradossi?

 

Ha dato il là a tanti lettori che hanno vissuto la propria incompiutezza di persone irrisolte posizionate sul baratro. Una condizione tipica del Novecento. Si è fatto compagno di viaggio di delusi, dubbiosi e disperati che hanno trovato in lui una forma di accredito della propria disillusione. Tecnicamente sono opere di un maestro capace di scrivere capolavori che però non lo sono mai nella loro interezza. Questo dispiace, vista la purezza e la perfezione taccate in alcuni punti, come per esempio nella scena finale de Il Processo, in cui il protagonista K. cammina sotto la luce della luna. Tuttavia la purezza e la perfezione scompaiono in altri passaggi, quando i protagonisti compiono atti o gesti incomprensibili ed esagerati.

 

 

Anche se lo sente distante, nel suo saggio traspare dell’entusiasmo verso le opere analizzate.

 

Ho cercato di spersonalizzarmi. Non riesco a immedesimarmi nel pensiero di Max Brod, l’amico di Kafka, colui che nonostante lo scrittore gli avesse chiesto di bruciare tutti i manoscritti li pubblica. Mi è piaciuto di Brod l’entusiasmo infantile di innamorarsi di una propria idea, di un proprio concetto e volerlo riflettere negli altri, quasi per estrarre dalla realtà quell’aspetto che voglio sia il modo di vederla, indipendentemente dal fatto che la realtà sia così per davvero oppure no.

 

 

Enigma, dubbio e paradosso sono i tratti più evocati nell’opera di Kafka, così come le allusioni. La speranza citata nel sottotitolo invece dove la troviamo?

 

Nelle parti finali dei suoi romanzi. È qui che c’è una apertura alla quale non si crede ma si spera possa esserci. Nelle conversazioni con il giovane discepolo Gustav Janouch, Kafka dice che “c’è sempre speranza ma non per noi”, una considerazione che trasmette fatalismo, che vuole mantenere aperta una porta nonostante creda non si possa aprire, esattamente come l’uomo davanti alla legge ne “Il Processo”. Il fatto paradossale è che tanto più è forte quanto più lui non ci crede.

 

 

Questo fatalismo crede sia una spia della cultura ebraica dell’autore?

 

Sì. È un ‘già’, un ‘non ancora’, dove il già non c’è, ma si spera che prima o poi arrivi. Sempre Janouch riporta un’altra frase che avrebbe detto Kafka: “non so se la salvezza arriverà ma cerco di esserne degno ogni momento”.

 

 

E il sacro dov’è nell’opera di Kafka?

 

Anche il sacro è una speranza, ma non documentabile. Kafka si sporge talmente tanto sul baratro del nulla che a un certo punto sente echeggiare qualcosa e già il fatto di sporgersi fino a quel punto oltre l’umano è comunque un movimento verso il sacro. Lui percepisce la incommensurabilità di un principio trascendente il mondo che, come spiega Rudolf Steiner, porta a percepire tra le proprie parole inquiete un riverbero del sacro. Il sacro per Kafka è perciò il desiderio di una assenza, che colma della sua assenza la propria percezione del mondo. Sente che ha il mandato di scrivere e di scendere nelle profondità, non riesce a capire se c’è qualcuno che l’ha indirizzato ma il pensiero è: se c’è un messaggio c’è anche un mittente.

 

 

Oggi l’eredità di Kafka qual è?

 

L’eredità è riscontrabile nella dedizione assoluta nella letteratura, una eredità difficile da accettare perché oggi la scrittura è profondamente cambiata. Quando lui dice “io sono tutto letteratura” denota un’intensità del rapporto con quello che si scrive e anche uno dei grandi pregi della sua letteratura e che manca in gran parte nelle produzioni attuali.

 

 

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