Sofia Steven nasce in Gallipoli il 1845 da genitori di casato e di sangue anglo-francese, il padre Enrico era viceconsole del Regno Unito, a Gallipoli, e la madre, Carolina, era figlia di Antonio Auverny, capo di una florida società commerciale.
Fu messa a studiare prima nell’educandato che le Suore della carità tenevano a Galatina e poi inviata a Napoli, dove frequentò l’istituto che, diretto da Carolina Cordella, era ritenuto il migliore educatorio femminile del tempo, e dove a quindici anni terminò gli studi nei quali ebbe come maestro di lingue e di poesia Federico Villani.
Rientrata in famiglia, si diede a coltivare gli studi, oltre che di lingue estere, anche scientifici, appassionandosi in special modo alla botanica.
Oltre che dal variegato mondo della natura, il suo mondo poetico s’intrecciava di amori, di affetti familiari e di ricordanze della fanciullezza beata e svagata.
Un viaggio compiuto tra il 1863 ed il 1865, con lo zio materno Giovanni, le fece conoscere città ed ambienti di Europa, stimolando l’ingegno ed arricchendo la conoscenza dell’animo umano e del suo cuore di donna sensibile e delicata.
Nel 1867 perdette il padre e contrasse, l’anno successivo, matrimonio con Settimio Barlocci, che, per lei, non fu altro che il nome del marito.
Colpita dal cancro il 1873, affrontava a Napoli l’intervento chirurgico che, se le asportò il seno destro, non le restituì la salute e, consapevole della prossima fine, attendeva a soffocare nella poesia le tristezze dei suoi giorni.
Saverio Altamura (1822-1897) e Francesco Jerace (1853-1937), che eseguirono il suo ritratto su tela ed in creta, colsero nella sua fisionomia l’espressione di un’assorta rassegnazione, in cui si inaridirono i sorrisi del suo mondo poetico che ella aveva popolato dei modelli ripresi dalle liriche di poeti della classicità ellenica, ma anche inglesi, francesi, tedeschi e spagnoli.
Degli autori italiani predilesse Giovanni Prati (1814-1884) ed Aleardo Aleardi (1812-1878), i cui ideali espressivi contaminarono il suo mondo poetico fatto di pallide tenerezze e di languidi abbandoni.
Mori a Napoli non ancora trentunenne il 1876, lasciando inedite le liriche che tre anni dopo videro la luce con il titolo di Canti, in onore di Leopardi, ed una commossa premessa anonima, ma certamente dovuta al fedele Villani.
Perduto deve considerarsi il manoscritto di un saggio sull’educazione femminile, che aveva composto in francese, e inattuato rimase il proposito di scrivere della flora salentina, sulla quale aveva condotto degli studi.
A più di cento dalla sua morte, nulla più rimane in Gallipoli e in Napoli dei ricordi della sua vita trascorsa in penombra.
Soltanto due vie in Gallipoli e in Napoli sono intitolate al suo casato e, nel museo civico di Gallipoli, è conservato un suo ritratto ripreso da Giulio Pagliano (1882-1932) dal busto di Jerace riprodotto nell’edizione dei Canti.