Il titolo completo assegnato nel febbraio del 1981 dalla redazione de “L’Ora del Salento” (il settimanale cattolico della diocesi di Lecce che ha smesso di esistere alla fine del 2016) era “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buone?”.
E come ricordava sabato scorso da queste pagine il card. Marcello Semeraro (LEGGI) si trattava di un articolo non scritto ma dettato al telefono al direttore dell’epoca, don Adolfo Putignano per salutare il neopromosso arcivescovo di Lecce, Michele Mincuzzi in procinto di lasciare la diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca per raggiungere il capoluogo salentino. Ecco la versione integrale di quel testo mirabile e che volentieri riproponiamo ai nostri lettori.
Voglio fare un articolo a rovescio. Di solito, in circostanze del genere, le due parti si scambiano i complimenti. In questo caso, mons. Mincuzzi dovrebbe dir bene della diocesi che lascia e la diocesi di Ugento (questa Nazareth nascosta nella Galilea della gente salentina) dovrebbe fare l’elenco di quanto ha ricevuto dal suo vescovo che se ne va. Ma tutto questo sa di accademia. Sembra un balletto concertato, un esercizio in cui le entrate e le uscite si pareggiano, i conti tornano, sempre e in più, salva furbescamente la modestia.
Io, invece, vorrei presentare con un briciolo di ostentazione la nota del corredo che la nostra madre povera, la Chiesa di Ugento-S. Maria di Leuca mette nelle valigie di Michele, il nostro fratello maggiore, che parte per nuovi destini. Sono capi di biancheria che sanno di spigo e di mele cotogne, sono panni un po’ ruvidi, come quelli dei contadini di un tempo, ma fatti in casa, su antichi telai.
Anzitutto, la Chiesa di Ugento in cinque anni ha dato al vescovo Mincuzzi la possibilità di esaltare la sua predisposizione ai sogni. “Nel formicaio i sogni sono obbligatori”, cantava Neruda; ebbene, la povertà di risorse, la penuria di mezzi, la carenza di appoggi, l’esiguità del clero, La perifericità culturale… non solo non hanno scoraggiato questo vescovo, ma sono stati lo stimolo che ha alimentato i suoi progetti sempre carichi di speranze e gravidi di futuro.
Se nessun pastore ha mai parlato tanto di futuro come mons. Mincuzzi è perché la nostra diocesi, con la sua povertà strutturale, ma anche con la sua obbediente disponibilità, gli ha permesso di frugare nell’avvenire alla ricerca delle ragioni ideali per vivere con impegno il presente. È un dono della nostra Chiesa che mons. Mincuzzi porterà certamente con sé: potrà servirgli anche a Lecce.
Un altro regalo che Ugento colloca nel bagaglio del vescovo che parte è un compendio del passato. La nostra diocesi in questi cinque anni ha potuto offrire a mons. Mincuzzi l’anamnesi puntuale ed eloquente dei mali che affliggono tutto il Salento e che affondano le radici in dolori lontani: in colossali ingiustizie subite, in rassegnazioni secolari divenute costume, in sofferenze remote provocate b dalla legge dei forti. La terra del Capo di Leuca, che amleticamente riassume nella sua storia di tutto questo profondissimo Sud, dona ora al vescovo Michele una preziosa chiave ermeneutica sociale e religiosa: potrà servirgli anche a Lecce.
L’ultimo dono è la concretezza e lo smalto di certi beni presenti. Osiamo pensare che il soggiorno tra popolazioni di periferia, di antica tradizione agricola, abbia intensificato nel vescovo Mincuzzi a schiettezza dei rapporti umani, gli abbia dato il gusto dell’amicizia casalinga, gli abbia fatto sperimentare il rude piacere di certe rotture, abbia prodotto in lui il bisogno di una spontaneità di gesti, meno controllati dalla patinata educazione cittadina. È questo il regalo che forse porterà più gelosamente con sé: potrà servirgli anche a Lecce.
Ripensando al diagramma percorso dal vescovo Mincuzzi che partito da una nobile città, approda, dopo una lunga pausa, in un’altra città, forte e gentile, mi sono tornati ancora una volta in mente alcuni versi di Neruda: “Ma la nostra vita è un tunnel tra due vaghe chiarità, o non una chiarità tra due triangoli oscuri?”.
Noi vogliamo auguraci che il nostro fratello Michele, che si accinge a partire, voglia considerare il suo soggiorno a Ugento come un tunnel, in cui egli ha sperimentato non il brivido del buio, la solidarietà, il calore umano, la fede, la passione e le speranze dei tanti compagni di viaggio che per cinque anni hanno camminato con lui.