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“È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità della pace”, ha affermato il Presidente Mattarella, nelle prime battute del discorso di fine anno (LEGGI IL TESTO INTEGRALE).

 

 

 

Immediatamente l’affermazione mi ha riportato a un famoso asserto di Norberto Bobbio: “esiste una grande filosofia della guerra, in quanto fenomeno positivo, ma non esiste una grande filosofia della pace”. Tra i testi classici della filosofia della guerra va ricordato quello di Karl Clausewitz dove si afferma che “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, e perché ogni politica è diversa dalle altre non si può dare una teoria astratta della guerra, ma le guerre sono sempre storiche, concrete, cioè guerre decise dalla politica, con scopi politici.

La tesi sgombera immediatamente il campo dall’ineluttabilità della guerra, come punizione costante del fato o di chissà quale divinità, e colloca il nostro discorso nel campo della responsabilità umana. In questa sede si evidenziano, per lo più, le responsabilità politiche relative alla pace; ma anche quelle culturali, di mentalità, ha sottolineato Mattarella. E continua su questa scia: “Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi”. La pace - shalom in ebraico - è serenità interiore, pienezza di vita nei rapporti con Dio, con se stessi, con gli altri, con la natura, è rispetto della giustizia specie verso gli ultimi, è armonia sociale e con la natura. Il riferimento primo è, allora, a quanto spazio occupa l’educazione alla pace nei così difficili e precari itinerari di formazione politica, che l’autorità statale progetta e realizza. La forte cultura di guerra, alimentata dai mass media, perverte le menti dei fanciulli e dei giovani, esaltando modelli di forza e violenza, presentando la pace come una scelta debole e sterile, creando falsi modelli di vita. Il risultato è quello di avere governanti e cittadini, quasi naturalmente inclini a credere all’ineluttabilità e necessità della guerra. I grandi riferimenti etici (le Carte Costituzionali o gli stessi principi cristiani) vengono facilmente accantonati o traditi nel momento in cui la politica è al suo ultimo stadio, prossima alla guerra.

E qui Mattarella fa riferimento a tante forme di violenza e di disagio sociale che alimentano la cultura dello scontro e, in definitiva, della guerra.

Le guerre ultime (aggressione russa all’Ucraina, conflitto israeliano-palestinese e altre) hanno mostrato, in tutta la sua cruda realtà, la debolezza della politica nell’evitare la guerra. Di che natura è questa debolezza? Essa non è solo culturale e pedagogica, ma è anche, molto spesso, determinata dai poteri economici forti, in primis la lobby delle armi, che hanno in ostaggio i governi nazionali. Mentre le guerre antiche nascevano dal desiderio d’espansione territoriale, le moderne sono generate dal desiderio di espansione e dominio economici. Tuttavia, unica è la radice: il desiderio di dominio (nihil aliud quam vincere volunt, afferma Agostino). Nella radice del dominio-possesso si radica lo stretto nesso che intercorre tra la stabilità della pace e la congettura economica. Si inserisce in questa scia Mattarella quando fa riferimento a “società pervasa da quella cultura dello scarto”, così efficacemente definita da Papa Francesco.

Ecco allora il doppio compito che spetta all’autorità politica: educare alla pace e promuovere le condizioni di giustizia sociale ed equa distribuzione delle risorse. Volere la pace non è mai un pio desiderio, dettato da effimera commozione per i crimini di guerra, ma è sempre un impegnarsi, ad ogni livello, perché la politica promuova il bene di tutti e dappertutto, con interventi per lo sviluppo, senza assoggettarsi alle logiche delle multinazionali, specie d’armi e petrolio. In quest’ambito si colloca la ferma opposizione alla corsa agli armamenti, definita dal Vaticano II una delle piaghe più gravi dell’umanità. Fondata sul si vis pacem, para bellum, assioma disperato e disastroso, come diceva Paolo VI, la corsa agli armamenti né promuove né conserva la pace, ma aggrava le cause di guerra legate alle disparità economiche, in quanto dirotta ingenti somme di denaro che potrebbero essere usate per lo sviluppo integrale dei popoli più poveri.

Mattarella collega pace, condizioni di giustizia sociale e impegno politico con queste parole: “Il lavoro che manca. Pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione. Quello sottopagato. Quello, sovente, non in linea con le proprie aspettative e con gli studi seguiti. Il lavoro, a condizioni inique, e di scarsa sicurezza. Con tante, inammissibili, vittime. Le immani differenze di retribuzione tra pochi superprivilegiati e tanti che vivono nel disagio. Le difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con liste d’attesa per visite ed esami, in tempi inaccettabilmente lunghi. La sicurezza della convivenza. Che lo Stato deve garantire. Anche contro il rischio di diffusione delle armi”.

È lunga e faticosa la marcia per assicurare la pace. Laici e credenti di ogni religione sono chiamati a discernimento continuo, ad una coerenza capace di andare contro corrente con passione e coraggio. Perché restano le parole amare della poetessa polacca Wislawa Szymborska: “Dio doveva finalmente credere nell'uomo/buono e forte/ma il buono e il forte/restano due esseri distinti”.

 

 

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