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“Non possono esistere invisibili in un tessuto democratico. Se ciò che desideriamo nelle istituzioni è la giustizia e se ciò che desideriamo nella democrazia è l’universalizzazione di questa giustizia, non possiamo non desiderare la partecipazione di tutti”.

 

 

“Si tratta di quella che Bergoglio già nel 2010 chiamava una ‘democrazia ad alta intensità’. Ogni filo che manca è un buco nel tessuto ecclesiale e sociale”. Lo ha affermato ieri, Annalisa Caputo, docente all’Università degli studi di Bari, nella sua relazione “In prima persona: abitare e costruire la casa comune della democrazia” pronunciata nella prima assemblea plenaria della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia, ospitata a Trieste.

Davanti ai mille delegati la docente ha spiegato come è possibile “tenere insieme bene individuale e bene comune” sforzandosi di collocarci “in una tensione che si muove tra prima persona singolare e quella plurale”. Oggi, ha osservato, “abbiamo perso il senso del noi e il livello comunitario del racconto”. E “abbiamo perso il gusto della partecipazione perché non ci rendiamo più conto di essere parte di una storia più grande”. Per questo bisogna farsi interpreti della “partecipazione alla tessitura”, perché “ognuno di noi è un filo di una trama da intessere”. Dalla “tessitura della propria storia” si deve passare “alla trama del noi” per raggiungere l’“intreccio comunitario”: “Partecipare - ha rilevato - significa mettere il proprio filo in un disegno comune ed essere convinti che insieme e diversi è più bello”.

Caputo ha evidenziato un “problema della partecipazione”: “Facciamo narrazioni sociali e comunitarie ideologiche”, ha notato; i social in questo ci condizionano perché, per esempio, “Facebook ci suggerisce le amicizie di chi la pensa come noi”. Questo avviene perché “un intreccio monocolore mi rassicura, mentre il diverso fa paura”. Ma “le vere narrazione collettive non sono sintesi di idee ma sono intrecci narrativi”.

Non saremo mai “Fratelli tutti” fino a che, ha aggiunto la prof. Caputo, “ogni Stato e ogni popolo che è abituato a riconoscersi in una sola storia non farà posto a più storie. Lo vediamo per Palestina e Israele che non riescono ad ascoltare vicendevolmente i propri racconti storici”, ma vale anche per “la nostra storia”. “L’Italia è anche il racconto che gli altri fanno di noi, dai grandi del G7 ai ‘poveracci’ che vorrebbero venire sul nostro territorio o abitarlo umanamente”.

La riflessione della docente, che si è sviluppata seguendo il pensiero del filosofo francese Paul Ricœur, ha cercato di spiegare la “tensione del desiderio” nel voler costruire “una vita felice con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste e per istituzioni sempre più democratiche”.

“Ma io sono felice, capace di non danneggiare me stesso?”, ha chiesto Caputo, ammonendo: “Se non ne sono capace per me come potrò esserlo per gli altri?”. Perché, ha proseguito, “non posso essere felice da sola, sono chiamata ad esserlo con e per gli altri”. Parlando dei “terzi con cui viviamo relazioni istituzionali”, la docente si è chiesta “come posso essere felice se abito in un quartiere invaso dai rifiuti, se in Italia abbiamo il 20% di disoccupazione giovanile e tre volte di più al Sud, se una persona su 10 vive la povertà assoluta, se l’astensionismo alle elezioni cresce?”. In questo contesto - ha commentato - “noi non possiamo essere felici”. Serve quindi “cura di sé, degli altri, delle istituzioni perché siano sempre più giuste e democratiche”.

 

 

 

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