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“Una cultura che, di fronte alla sofferenza e al suo dramma, non sa proporre di più e meglio di un diritto a morire - diritto assicurato come suicidio assistito - è delusoria e fuorviante”.

 

 

 

È quanto sostiene il pugliese mons. Mauro Cozzoli, docente di teologia morale alla Lateranense e all’Alfonsiana, in merito alla proposta di legge sull’omicidio del consenziente. “Una cultura spinta fino alle apologie del suicidio, elogiato come supremo atto di libertà, con cui un individuo mette fine alla sua esistenza”, commenta il teologo sul numero di febbraio del mensile Vita pastorale: “Elogio ingannevole, perché il suicidio non è mai affermazione di libertà ma espressione di infelicità. Rivendicazioni e plausi socialmente deludenti, per l’indebolimento del bene e dell’amore per la vita nell’immaginario delle coscienze, specialmente dei più giovani e dei più deboli. Ne è sintomo inquietante il diffondersi di comportamenti di sfida della morte”.

“Qui la fede e la speranza fanno la differenza - sostiene Cozzoli-. Non alludo solo alla fede e alla speranza teologale. Alludo, anzitutto, a una fede e a una speranza spirituale e valoriale, che antropologie deboli ed etiche tristi vanno rimovendo, privando di senso e di scopo la vita e abbandonando le persone alla loro angoscia”.

“Dire che non c’è una libertà per la morte non significa perseguire la vita a ogni costo”, puntualizza il teologo: “Non c’è un diritto a morire volto a mettere fine alla vita. C’è però un diritto a morire bene. Tutti dobbiamo morire, ma non è detto che dobbiamo morire male. C’è un diritto a morire con dignità umana e cristiana, volto a umanizzare il morire con le terapie del dolore, che fugano ogni considerazione e visione doloristica della sofferenza, e con la rinuncia a mezzi di cura straordinari e sproporzionati. Rinunciare ai quali non vuol dire sopprimere la vita, ma accogliere e vivere la morte come l’ultimo atto della vita”.

 

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