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Il barocco leccese, diffusosi nella provincia e divenuto in breve lo stile di una intera regione, il Salento, è l’espressione visiva e tangibile di un fenomeno complesso manifestatosi in un arco di tempo incredibilmente lungo, quasi tre secoli, e favorito nel suo articolato sviluppo tanto dall’ambiente in cui si inquadrava quanto, tecnicamente, dalla qualità stessa della pietra locale impiegata, la tenera e compatta “pietra leccese” dai toni caldi e dorati.

 

 

 

Fiorì verso la fine del ‘500 in una città fino allora quasi spagnola, ed esplose letteralmente nella seconda metà del XVII secolo, perdurando per buona parte del Settecento.

Pur imparentato e per certi versi emanazione delle forme romane cinquecentesche e poi dei modelli del Seicento napoletano, seppe tuttavia imporre e salvaguardare, soprattutto in campo architettonico, una impronta personale, un gusto ed una connotazione così originali da caratterizzare inconfondibilmente la produzione locale, frutto, è bene ricordare, anche dell’eredità culturale dei suoi operatori cresciuti all’ombra della grande tradizione romanica.

Peculiare di quest’arte “nuova” fu la committenza. Sotto il profilo sociale, a un governo della città e del territorio di evidente matrice “militare” si era sostituita e radicata per tutto il ‘600 una supremazia di stampo signorile e religioso.

Lecce si afferma allora quale centro aristocratico e colto il cui patrimonio artistico si arricchisce per iniziativa della classe dirigente, grandi feudatari e famiglie nobili che dalle campagne traggono i loro redditi, ma soprattutto per impulso della Chiesa, che attraverso la gerarchia ecclesiastica e gli ordini religiosi (Gesuiti, Teatini, Celestini, Domenicani, Carmelitani ed altri ancora) intende suggellare, ampliando, ornando, abbellendo gli edifici sacri, la propria autorità ed il proprio prestigio.

I santuari, i conventi, le chiese, oltre a numerose architetture civili, diventano così l’oggetto privilegiato della produzione artistica, manifestazioni di un culto sempre più esteriore in cui alle facciate, in particolar modo, è affidato il compito di esprimere quanto più compiutamente possibile le nuove esigenze laiche ed ecclesiastiche di mondanità.

Di tali esigenze si fecero interpreti le maestranze chiamate ad operare sul palcoscenico leccese: architetti, ma soprattutto scultori, capimastri, carpentieri, scalpellini, fabbri, arredatori, decoratori, un esercito in gara per abbellire la città all’insegna della più libera fantasia e renderla qualcosa di unico di cui tutti potessero e dovessero parlare.

Fra i nomi più ricorrenti di quanti lavorarono a Lecce ed in provincia si annoverano quelli di Gabriele Riccardi, precursore cinquecentesco del nuovo stile, Francesco Antonio Zimbalo, Cesare Penna, Giuseppe Zimbalo detto lo Zingarello, il più audace e fedele interprete della “fantasia barocca”, autentico protagonista del suo tempo, Achille Larducci (o Carducci) e Giuseppe Cino, epigoni del barocco che guarda al rococò, di Mauro ed Emanuele Manieri e dei pittori Giovanni Andrea Coppola, Antonio Verrio ed Oronzo Tiso, di tutti il più prolifico.

 

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