Al fine di onorare la memoria del prof. Giovanni Invitto deceduto ieri e i cui funerali, officiati dall’arcivescovo Michele Seccia, si svolgono stamattina in cattedrale, Portalecce pubblica un suo contributo del 2012 per ‘L’Ora del Salento’ sulla festa patronale dei leccesi (che celebreremo tra qualche settimana) in onore dei Santi Oronzo, Giusto e Fortunato.
Mi piace iniziare questi “asterischi” sulla festa, con una definizione che diede Aldo Capitini, intellettuale laico ma con forte sensibilità religiosa, tanto da creare la Marcia della Pace Perugia-Assisi. Definì così la festa: “Ecco la festa. Per noi essa è composta da due elementi: uno è questa presenza di tutti, vivi e morti, vicini e lontani, per cui ci apriamo con reverenza alla non menzogna e alla non violenza; l’altro è questo essere al di là dei limiti, dai vecchi limiti del dolore, del peccato, della morte in una serenità che è anche oltre la gioia. Perché è Dio che dall'intimo si apre a tutti e rinuncia ad un nome proprio, appunto per essere più vicino a tutti”.
Dei tre giorni di festività di quand’ero bambino (parlo degli anni a cavallo tra 1940 e 1950), ricordo la processione, l’illuminazione aggiunta su tutti i balconi del centro storico, che poteva essere data dai lampioncini di carta veneziani, con candeline o lumini interni accesi. Altri ricordano le lucerneddre della canzone cantata da Tito Schipa e Franco Perulli, e che erano di terracotta. Così erano inevitabili le statue argentate di terracotta dei tre santi, alte dai 5 ai 10 centimetri. Ma comunque non posso dimenticare, spettacolo nello spettacolo, Tito Schipa seduto ai tavolini dell’Alvino o, dopo, del Caffè della Borsa. Egli veniva ogni anno nella sua città, spesso ingrata nei suoi confronti, per gustarsi la festa. Non mancava mai. Anche perché alla fine della manifestazione religiosa c’era la banda che, dalla cassa armonica, faceva ascoltare romanze di opere.
Erano anche gli anni del giornale “Festa Noscia” edito e costruito nella Tipografia Martano, con disegni del prof. Oronzo Giurgola che veniva messo in vendita il 24 sera. Allora tutte le feste religiose erano importanti per i quartieri dove era locata la chiesa e per i devoti del singolo santo e, soprattutto, della Madonna, nei suoi vari aspetti di culto (Assunta, Addolorata, della Grazia, del Carmelo, del Rosario, dell’Idria, di Costantinopoli, del Buon Consiglio, della Porta, d’Aurio, degli Angeli, della Provvidenza…). Né mancavano mai sui gradini delle chiese i tavolini dei “pupari” con le Madonne o i santi di terracotta, ora introvabili, a parte per chi, come me, è riuscito a recuperarne dall’antiquariato qualche diecina.
È chiaro che la Festa cominciava il 24, con la processione che si snodava per le vie del centro storico, uscendo da Porta San Biagio e rientrando da Piazza Sant’Oronzo. Arrivati all’anfiteatro romano, la processione si fermava e partivano verso il cielo i “palloni” o aeròstati, tra gli applausi del pubblico in relazione alla riuscita del lancio e alla bellezza dell’oggetto che volava. Mi racconta Marisa, mia moglie, che aveva una campagna vicino Collepasso, che quei palloni erano portati dal vento sino a quelle zone ed alcuni contadini erano pronti a prenderli e rilanciarli in alto. Le tre statue d’argento rispettavano l’ordine stabilito da secoli. Sant’Oronzo era l’ultimo dei tre e quando, alla fine della processione, si sostava per la predica e la benedizione del vescovo (ricordo da mons. Costa al nostro mons. D’Ambrosio), Sant’Oronzo era collocato al centro delle statue, tanto da far generare proverbi come questo, naturalmente anonimo: “Lu capu de la macìnnula va’ a zzonzu, am menzu am menzu comu santu Ronzu” (“La testa dell’argano va a zonzo, proprio in mezzo, come sant’Oronzo”).
Questa festa, nella mia famiglia, era stata trascurata nel periodo delle vacanze estive a Leuca. Tornammo a viverla quando ci furono i due miei figli (ora parlo degli anni Settanta-Ottanta), Con loro giravamo tutto luglio e agosto per il Salento alla ricerca delle feste patronali, perché villeggiavamo a Tricase Porto. Però il 24 agosto tornavamo a Lecce con amici settentrionali. Ci fermavamo a casa per cenare. Poi si usciva per comprare olive verdi, la “cupeta”, dolce croccante di mandorle e miele cotto e duro, i “mostaccioli” rivestiti di cioccolata, i sedani, scapece (pesce fritto e marinato con aceto e zafferano), noccioline, giostre... Poi, dal terrazzo di casa assistevamo ai fuochi d’artificio. Ma negli ultimi decenni i fuochi d’artificio si sono accesi quasi sempre a San Cataldo o in zone vicine a Lecce. Debbo dire che da bambino avevo un po’ paura dei fuochi, infatti, normalmente i bambini piangono al fragore. Il pranzo del 26? Parmigiana e pollo al sugo o arrosto.
Forse allora, rispetto ai nostri giorni, era maggiormente, se non esclusivamente, una festa religiosa. Era una stagione diversa: parlo di quando nelle case si avevano le campane di vetro con dentro i santi di cartapesta. E in molte case, c’era il santo patrono o Maria Addolorata o altri santi di cui la singola famiglia era devota. Così pure, chi frequentava allora la funzione serotina ascoltava il canto dell’Ave Oronti. Poi, diciamo la verità, anche la tv ha più volte ironizzato sulla cacofonia del nome Oronzo, per cui credo che negli ultimi vent’anni a nessun neonato sia stato imposto quel nome. Ma il discorso è un altro: oggi la “festa nostra” è vissuta più come festa di popolo e meno come festa religiosa. Forse sbaglio, e mi auguro che sia così, ma è rimasto in maniera prevalente l’aspetto mercantile e folkloristico. Un altro elemento che può aver ridimensionato l’afflusso al momento della processione religiosa possono essere state le tv locali che trasmettono tutti i riti in diretta: fatto encomiabile in sé, ma che agevola i pigri a rimanere a casa.
La mia conclusione non è una conclusione pessimistica, perché il problema non è la festa in sé, ma la fede vissuta. Oggi si va alla ricerca di feste, non solo religiose, anzi… Questa bulimia festaiola forse serve a dimenticare i problemi reali. Ma, all’interno di questo fenomeno, conosciamo le feste che nascono da motivi di lucro o per dimenticare per una sera e per una notte la realtà dura in cui viviamo. È vero che le feste esterne religiose sono diminuite, sono diminuite le luminare e i fuochi d’artificio. Quelle che erano feste delle parrocchie o di chiese dedicate a santi, il cui culto era radicato tra noi, in parte sono quasi scomparse e, comunque, hanno un sèguito di popolo molto ridotto rispetto a prima. Anche problemi di traffico, di sicurezza, di orari… Ma questo non è, di per sé, segnale negativo. Oggi partecipa chi lo fa con cognizione e fede certa. In fin dei conti la festa non dà niente al santo festeggiato: dà molto alla comunità e al singolo credente che hanno modo di riconoscersi nella propria storia e nelle proprie convinzioni. Recuperiamo l’ingenuità della festa perché in essa, come affermava il laico Capitini, citato all’inizio, è Dio con noi che rinunzia ad un nome proprio per essere con tutti e in tutti.