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Dopo aver esplorato il culto e la religiosità di Turi, il nostro viaggio sulle tracce di Sant’Oronzo raggiunge Botrugno, nell’arcidiocesi di Otranto. Qui incontriamo Andrea Bello, dottore in Lettere moderne, studioso delle vicende locali ed autore dell’agile volume Oronzo, Giusto, Fortunato. La tradizione, la storia, la fede.

Dott. Bello, com’è nata l’idea di compiere tale ricerca?

L’occasione mi è stata offerta dal ritrovamento fortuito di un prontuario devozionale che riportava preghiere dedicate a Sant’Oronzo composte nel 1796. Da allora ho nutrito il desiderio di indagare più a fondo la vicenda dei martiri salentini. Il mio lavoro parte dal racconto agiografico del primo vescovo leccese, attingendo sì alla tradizione ma provando anche a contestualizzarlo in una storicità di più ampio respiro. Si passa poi ad un’analisi prettamente storiografica delle testimonianze del culto oronziano. Infine ho voluto dare spazio anche alla religiosità popolare dei diversi luoghi di cui il santo è patrono.

A quali risultati è pervenuto il suo studio?

A dire il vero non mi proponevo di giungere ad un esito definitivo. Un’indagine su Sant’Oronzo è qualcosa di vasto perché è inevitabile che coinvolga anche l’antropologia, l’arte, la storia, la cultura di tutto un territorio. Ad ogni modo, la figura del santo leccese continua a suscitare interrogativi. Non è mia intenzione mettere in dubbio la presenza di nuclei cristiani nel Salento già nel I-II sec. ma devo altresì ammettere che la vicenda oronziana, almeno così come ci è pervenuta, mostra qualche punto debole. Il testo del Bozzi (I primi martiri di Lecce, n.d.r.) ad esempio, risalente al 1672 e che per secoli ha costituito la fonte privilegiata per conoscere la vita del patrono, non può essere preso in blocco come un documento storico. Infatti, accanto a dati attendibili o comunque plausibili si riscontra anche la presenza di palesi anacronismi. Inoltre diversi episodi appaiono davvero poco originali perché molto simili a quelli riportati nelle agiografie di altri santi. L’operato del Pappacoda poi, volto al trionfo del culto oronziano, non fu affatto lineare ma forzò, in qualche modo, l’iter canonico previsto dai decreti di Urbano VIII. Insomma le pagine da indagare sono tante.                 

La scoperta di una reliquia del santo in Croazia ha però acceso una nuova luce…

Senza dubbio quanto accaduto a Turi è stato un evento. Tuttavia io ci andrei cauto. A mio modesto avviso, quella reliquia non chiude affatto la questione oronziana. Ne inaugura un nuovo capitolo rendendola ancor più complessa, semmai. Nel Supplice Libello il Pappacoda ammette candidamente di ignorare dove fosse il sepolcro del santo. La lampada che arde nel duomo di Lecce poi ha sempre indicato un ipotetico tumulo. Negli anni ʼ20 del secolo scorso mons. Paladini andò alla ricerca della tomba nei sotterranei della cattedrale ed il suo non fu affatto l’unico tentativo compiuto nel corso del tempo. Insomma, a partire dal Seicento nessuno sembra essere a conoscenza di una traslazione del martire in Croazia. Certo, le reliquie potrebbero aver migrato verso i Balcani a motivo delle invasioni gotiche, longobarde o normanne che, in diversi momenti, flagellarono la Puglia. Ma si tratta di pure ipotesi difficilmente verificabili, a meno che non saltino fuori documenti storici sinora sconosciuti. Un esame del contenuto del reliquiario risolverebbe molte incertezze.         

                                                                                                          

 

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