C’è una differenza molto importante, addirittura radicale, tra quella che per un sacerdote è la «prima messa» e quel che sono le altre, che egli stesso celebra in occasione delle varie, successive scadenze temporali, o anniversari della propria ordinazione.
È una differenza che non riguarda certamente la «fioritura» impensabile e graziosa di quelle liturgie eucaristiche, ossia la presenza misterica, ma reale del Signore crocifisso e risorto. Quella è identica e, ogni volta, incommensurabilmente nuova, preziosa ed efficace. Per altri aspetti, tuttavia, c’è differenza di non poco conto nei significati e nelle intenzioni.
Per la messa nell’anniversario della propria ordinazione questi si possono cogliere già, a un primo sguardo sul formulario liturgico, che indica: la gioia di rivivere il giorno della propria ordinazione sacerdotale; la gratitudine al Signore per essere stato chiamato alla comunione con l’eterno sacerdozio di Cristo e al servizio della Chiesa; la richiesta della «grazia di crescere» in tale servizio; la preghiera di essere ancora «annunciatore mite e coraggioso» del Vangelo e «fedele dispensatore» dei divini misteri … e qui, per ciascuno, si apre lo spazio per un’umile confessione e per una sincera richiesta di perdono.
Tutto questo senza alcun merito, come per ben due volte ribadisce il messale romano e qui riecheggiano nell’animo le parole formulate al termine della sua vita terrena da Santa Teresa di Gesù Bambino: tutto è grazia (QG 5.VI, 4). Credo sia qui tutto ciò che un sacerdote può dire in un suo giubileo sacerdotale. Questo sicuramente, pure in questa circostanza, c’è nel cuore del vescovo Donato. Il suo, infatti, è un animus gratus: virtù che per Cicerone è non solum maxima sed etiam mater virtutum omnium reliquarum, non è solo massima virtù, ma anche la madre di tutte le virtù (Orat. pro Cn. Plancio, 33).
Tutto ciò che sino ad oggi è accaduto nella sua storia di prete e di vescovo, egli lo ha accolto in gratitudine: senza pretesa, né orgoglio, ma con umile e disponibile sorpresa. Tre momenti, in particolare, mi permetto di ricordare: quando l’arcivescovo Michele Mincuzzi lo scelse quale pro-vicario generale dell’arcidiocesi di Lecce; quando l’arcivescovo Ruppi aderì alla scelta dell’episcopato pugliese per il mandato di rettore del pontificio seminario regionale pugliese; quando dal Papa gli giunse la chiamata al ministero episcopale nella successione ministeriale al vescovo Antonio Bello.
Per un occhio profano, o clericale questi passaggi avrebbero il colore delle «promozioni». Egli, però, le visse come chiamate, come vocazioni di quel Dio che - come scriveva Newman - non chiama soltanto una volta, ma molte volte: «per tutta la nostra vita Cristo ci chiama… siamo tutti continuamente chiamati, sempre di nuovo, da una cosa ad un’altra… e quando obbediamo a un comando, subito ce ne viene dato un altro» (Parochial and Plain Sermons, VIII/2 «Divine Calls»: Longmans, Green and Co., London 1908, 23).
Neppure furono facili incombenze. Mincuzzi fu il vescovo delle utopie. Sembravano scritte per lui le parole di Gioele: «i vostri anziani faranno sogni» (3,1). Se è bello, però, fare dei sogni belli, molto duro e faticoso è calarli nella realtà! Donato Negro stette con fedeltà e verità accanto all’arcivescovo Mincuzzi nel governo della Chiesa particolare. La chiamata, poi, alla guida della comunità del Regionale di Molfetta, lo colse quando aveva appena cominciato a gustare il sapore della cura animarum: si trattava di ri-cominciare e, anche questa volta, lo fece con disponibilità e apertura d’animo. Giunse, infine, la chiamata al ministero episcopale. Anche questa lo colse di sorpresa e non senza stupore! In timore et tremore Lo stesso arcivescovo Michele Mincuzzi che aveva proposto alla Sede Apostolica mons. Bello, aveva pure fatto il suo nome per il ministero episcopale: chi ha conosciuto l’arcivescovo Mincuzzi, è in grado di intendere che le sue erano davvero intuizioni di capacità di servizio e proposte avanzate con cuore libero.
Tra Donato e me, intanto, si consolidavano gli antichi sentimenti di amicizia e i vincoli spirituali, che ci avevano veduti vicini nella fase della formazione iniziale al sacro ministero prima e poi nell’accoglienza delle prime responsabilità ecclesiastiche: responsabilità che ci avvicinavano ulteriormente nel servizio per la formazione del futuro clero pugliese a Molfetta e che poi sarebbero divenuti anche vincoli nel sacramento dell’episcopato. Anche qui, se geograficamente ci allontanavamo, spiritualmente ci stringevamo. Come scrive Agostino in una sua preghiera, che è al tempo stesso una «confessione»: «Non c’è vera amicizia, se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo» (Conf. IV, 4,7: PL 31,696).
Ed è qui che appare la «differenza», di cui scrivevo all’inizio, tra una «messa giubilare» e la «prima messa» di un sacerdote. In quella è alquanto facile far venire alla luce, portare in superficie e individuare i vari sentimenti. Per un vescovo, poi, ci sono gli «Atti» del suo episcopato a indicarli e porli sotto gli occhi di tutti. Ma è molto più difficile dirlo per la «prima messa»! Quali sentimenti, quali speranze, quali progetti… Quel che poteva esserci nel cuore di un giovane prete, di appena ventiquattr’anni… Inesperti e tuttavia attraversati dalla luce del Concilio Vaticano II e passati nel crogiuolo di un ‘Sessantotto dopo il quale essere giovani aveva ormai un altro senso.
Siamo stati, dunque, una generazione che ha assaporato nova et vetera, vissuto le attese e gli entusiasmi, ma pure le difficoltà di quegli anni. Tutto ci segnava - e ci ha segnato - la vita. Poco si capirebbe di preti come don Donato e me, se si prescindesse da quegli anni, da quella storia che fu vita vissuta ed è carne della nostra carne.
Fu quello il contesto in cui in quegli anni vivevamo la «prima messa». E tutto è nascosto nel cuore; non è da dirsi, ma da amare, da ri-cordare, ossia da conservare nel cuore, perché è la perla nascosta della nostra vocazione al sacro ministero. Quella «perla» ha permesso a Donato e a me di vivere, nella silenziosa complicità dell’amicizia, momenti importanti che entrambi abbiamo posto nel cuore di Dio e che è giusto tenere riservati. Ed è da questo Cuore che attingo il mio augurio di fratello e di amico.
*Prefetto del Dicastero delle cause dei santi