Alla notizia della morte di Benedetto XVI, il card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi ricorda in questa intervista la figura di Joseph Ratzinger.
Eminenza, Lei è stato per tanti anni il vescovo della residenza del Papa a Castel Gandolfo che Benedetto XVI ha sempre amato. Che ricordi ha della presenza di Ratzinger sui Colli Albani? Lei lo ha accolto il giorno in cui ha lasciato il Vaticano…
Accolsi a Castelgandolfo il nuovo Papa - Benedetto XVI - il pomeriggio del 5 maggio 2005 e lo accolsi pure quando vi giunse, dopo l’atto di rinuncia, il 28 febbraio 2013. Al suo seguito, poi, sempre a Castelgandolfo accolsi il suo successore Francesco, nella sua prima visita alle Ville Pontificie il 14 luglio 2013. Benedetto XVI è stato sempre molto affezionato alle Ville Pontificie e ha continuato a esservi presente anche dopo la rinuncia al governo della Chiesa; vi tornava a volte per poche ore, prima di pranzo fino al tardo pomeriggio; in estate accoglieva per alcune settimane il fratello mons. Georg e questa era una presenza, che lo confortava davvero. D’estate mi chiedeva di fargli compagnia in qualche piccola “gita turistica” insieme con Suor Christine Felder, della Famiglia Spirituale L’Opera e amica di famiglia, che accompagnava mons. Georg Ratzinger quando egli era a Roma, o a Castelgandolfo. Ricordo che i suoi giorni erano sempre molto regolati; non trascurava mai la passeggiata pomeridiana, che si concludeva sempre con la recita del Santo Rosario davanti ad una statua della Vergine, fatta erigere da Pio XI. Ogni domenica, poi, guidava la preghiera dell’Angelus e salutava i pellegrini. Nella solennità dell’Assunta ha sempre celebrato la Santa Messa nella parrocchia di Castelgandolfo: seduto vicino, lo osservavo attentamente durante l’omelia, che egli pronunciava a braccio, con gli occhi fissi all’orizzonte, quasi vedesse lì un testo scritto. Le parole gli scorrevano fluide dalle labbra, ricche di sapienza… Ricordo con vera emozione quei giorni, durante i quali ho potuto avere con lui una più maggiore e serena frequentazione e conservo nel mio animo i colloqui di allora e quelli successivi avuti presso il “monastero”.
La rinuncia di Ratzinger al Soglio Pontificio entrerà nei libri di storia. Lei come ha vissuto la decisione del Papa?
Fu, quello, un momento davvero storico, per la Chiesa e per il mondo. Non perché ciò non fosse accaduto in passato, ma per la modalità serena e al tempo stesso ufficiale scelta dal Papa per rendere pubblica la sua rinuncia. È un evento che ancora non è stato “assorbito” nel suo significato. Umiltà, libertà, responsabilità di fronte a Dio… Occorre la distanza del tempo, per vedere nel modo giusto. Io, quell’11 febbraio, avrei dovuto essere in Vaticano per partecipare al Concistoro per l’annuncio della canonizzazione dei Martiri di Otranto, del cui miracolo ero stato “ponente” nella sessione ordinaria della Congregazione delle cause dei santi. Mons. Sapienza, però, mi telefonò per comunicarmi che al rito sarebbero stati presenti solo i Cardinali! Non se ne comprendeva la ragione, ma poi si capì. Ero dunque, nel mio ufficio della Curia di Albano, quando dalla radio giunsero le prime notizie: prima alquanto confuse, ma poi in forma più chiara. Ne rimasi fortemente stupito e la mia prima reazione fu quella di telefonare a Buenos Aires al card. Bergoglio, col quale da dodici anni avevo consuetudine. Egli mi diceva sempre di chiamarlo quando in Italia era mezzogiorno, in coincidenza col primo mattino in Argentina. Rimase anch’egli meravigliato e mi disse subito parole di grande stima nei riguardi del Papa. “Ne riparliamo a Roma”, concluse.
Benedetto XVI ha insegnato che la Chiesa si può servire non solo con il governo, ma anche con la preghiera?
È questa l’indicazione che ci giunge dagli Apostoli, come racconta il libro degli Atti: “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (6,2-4). Quanto ciò sia attuale, ce lo ricorda anche la scelta di Benedetto XVI. La Chiesa, come la società del resto, ha bisogno di guida e di governo, ma ancora di più ha bisogno di sostegno; ha bisogno di braccia innalzate. “Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva…”, racconta Gen17,11. Nel ministero sacro il “governo” è una dimensione del triplex munus. Il Concilio Vaticano II ha insegnato che “tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo” (Lumen gentium, n. 25); aggiunge poi, al n. 26, il ministero di santificazione e poi, al n. 27, quello di governare la Chiesa particolare. Non è un ordine “dogmatico”, come quello delle tre divine Persone, ma ha un senso. Concludendo, il 10 febbraio 2013, la sua dichiarazione di rinuncia, Benedetto XVI disse: “Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio”.
In questi anni di ritiro monastico, la presenza del Papa emerito è stata sempre viva all’interno della Chiesa…
È stata, certo, sempre viva! Oltre a un esempio di vita e di dedizione pastorale, da Benedetto XVI la Chiesa ha ereditato un magistero, che ora appartiene al suo patrimonio. I ministri della Chiesa passano; chi rimane – ieri, oggi e sempre - è Cristo. Perché Cristo e la Chiesa sono vivi. Dando ufficiale inizio al suo ministero petrino, il 24 aprile 2005, Benedetto XVI ripeté più volte: “La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto”. A sua volta, così Papa Francesco ha iniziato una sua esortazione apostolica post-sinodale: “Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo. Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita”.
In molti hanno tentato di contrapporre Francesco e Benedetto XVI. Sono state ordite ricostruzioni di complotti massonici, di dimissioni a metà, di un Papa regnante senza autorità. Che rapporto ha legato i due Pontefici?
Il gesto di Papa Francesco di riprendere da Benedetto XVI una lettera enciclica - la Lumen fidei - ha un valore anche simbolico, a mio avviso. Al n. 7 dell’enciclica possiamo leggere: “Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi. Il Successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a ‘confermare i fratelli’ in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo”. Solo due volte sono stato vicino a Ratzinger e a Bergoglio nella stessa circostanza. La prima quando, accompagnando Benedetto XVI, accolsi Francesco nelle Ville Pontificie. C’è una foto che ritrae insieme tutti e tre in quel momento. Dopo averlo abbracciato e salutato, Benedetto XVI disse a Francesco: “Le presento il vescovo di Albano”; Francesco, di rimando disse: “Ci conosciamo già! Il Sinodo del 2001”. Si rise un po’ su questa coincidenza. All’epoca il Papa era Giovanni Paolo II e loro due cardinali. La seconda volta in cui sono stato vicino ad ambedue fu la sera del 28 novembre 2021, quando Francesco accompagnò me e i nuovi cardinali da Benedetto XVI. Con lui mi sono intrattenuto di persona a colloquio per l’ultima volta il pomeriggio del 13 giugno 2022: parlammo a lungo, anche della decisione di Francesco - di cui era molto contento - di proclamare dottore della chiesa Sant’Ireneo di Lione.
Che eredità ci lascia Benedetto XVI? Anche da un punto di vista teologico?
Joseph Ratzinger è stato un teologo di primo piano, ben noto fin dall’epoca del Concilio Vaticano II cui partecipò come perito conciliare. Nel 1998 curai per un “Dizionario dei Teologi” una voce a lui dedicata. Da allora sono trascorsi molti anni…
La sua autorevolezza dottrinale fu sempre in crescendo e nel 1981 San Giovanni Paolo II lo scelse come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il mio impegno di studio e d’insegnamento nell’ambito della ecclesiologia mi ha portato a studiare specialmente le sue opere in materia. Quando, nell’Istituto Teologico Pugliese, alla fine degli anni ‘70 tenni un corso di escatologia, adottai come libro di testo il suo “Escatologia. Morte e vita eterna”. Quando poi, da vescovo di Albano, avevo più spesso modo di stare con lui, anche a pranzo a Castelgandolfo, si parlava abitualmente di teologia. Sorrise di gusto quando gli dissi, una volta, che mi ero “innamorato” della teologia leggendo la sua “Introduzione al cristianesimo” (1968); si commosse, poi, quando, da cardinale, rispondendo a una sua domanda gli dissi che mi ero formato sulla “Dogmatica Cattolica” di Michele Schmaus. “Era il mio professore”, disse e intanto per la commozione del ricordo gli brillavano gli occhi. Nella mia memoria, di questi ultimi anni, rimane soprattutto la luminosità dei suoi occhi. La produzione teologica di J. Ratzinger ora la si sta raccogliendo in una Opera Omnia, di cui va avanti anche la traduzione in lingua italiana. È un contributo teologico, il suo, che spazia sull’intero ambito della teologia dogmatica, anche nella mariologia e con degli ingressi anche in teologia liturgica. Suoi autori preferiti sono stati San Bonaventura e Sant’Agostino. Conclusivi della sua opera teologica egli ha considerato i tre volumi su “Gesù di Nazaret”: un atto di amore a Cristo.