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La biblioteca, l’archivio, il museo, a prescindere se sono periferici, regionali, nazionali, ecclesiastici, non sono da intendere solo come contenitori di cultura, ma e soprattutto come luoghi di scambio e di confronto della cultura, vanno identificati come luoghi di relazione tra le persone e il territorio.

 

 

 

 

È questo il senso del “viaggio”, breve ma intenso, che Portalecce propone ai suoi lettori per presentare piccoli tesori di cultura e di arte, nascosti ma facili da scoprire e da conoscere per chi, spinto da saggia curiosità vuole entrare in punta di piedi nella biblioteca, nell’archivio e nel museo della diocesi di Lecce. Le tre tappe di un percorso avvincente.

È necessariamente opportuno uscire dall’idea della biblioteca, come solo luogo di studio e di conservazione dei libri o di deposito volumi oramai datati; smettere di pensare che l’archivio sia un luogo che ospita carte non più utili ai fini giuridici-amministrativi, per cui depositate in un locale “di fortuna” dove qualcuno, per causa forza maggiore prima o poi si recherà a consultare o a recuperare il documento divenuto oramai polveroso nel tempo; è indispensabile uscire dall’idea di museo come luogo chiuso che ospita opere d’arte, oggetti, paramenti, reperti archeologici etc. visitato solo da turisti o da qualche scolaresca. Detto ciò, non si può non sottolineare l’importanza di potenziare, divulgare e ampliare la conoscenza di questi luoghi culturali che non sono altro che il passato, il presente e il futuro della nostra memoria e delle nostre radici e delle nostre bellezze.

Premesso ciò è doveroso presentare i tre luoghi che nel corso degli anni, nonostante le varie vicissitudini, sono riusciti a “sopravvivere”. Si tratta della biblioteca, dell’archivio e del museo diocesani, presenti nei locali dell’antico seminario di Lecce, il palazzo inconfondibilmente barocco che affaccia su Piazza Duomo. Le tre realtà costituiscono il Polo biblio-museale della diocesi metropolitana

 

Iniziamo dalla Biblioteca arcivescovile “Innocenzo XII”, meglio conosciuta come Biblioteca Innocenziana allocata nell’antico seminario.

Sita al piano terra prende il nome dal Pontefice Innocenzo XII, Antonio Pignatelli già vescovo di Lecce, a cui è stata titolata nel 1927, in occasione dei festeggiamenti per il 25o anniversario di episcopato a Lecce di mons. Gennaro Trama. Essa inizia a costituirsi nella prima metà del Settecento sotto mons. Fabrizio Pignatelli, vescovo di Lecce, con le edizioni della Tipografia vescovile di quel tempo.

Nel 1799 si amplia aggiungendo al primo nucleo i volumi provenienti dai soppressi conventi di Lecce, dei Padri di San Benedetto, di San Domenico, di Sant’Agostino, dei Frati minori della Riforma e dei Cappuccini di Rugge. La dote dei libri si accresce poi di anno in anno con le opere donate da vescovi, sacerdoti e privati cittadini.

È il 9 gennaio 1961, quando viene aperta al pubblico e il 12 dicembre 1983, quando la giunta regionale della Puglia la dichiara istituzione di “interesse locale”. Successivamente, con decreto n. 3 del 17 novembre 2020 dal Mibact viene riconosciuta “di eccezionale interesse culturale”.

Oggi il patrimonio librario è costituito da circa 80mila volumi: tra testi antichi (XV-XIX secolo), manoscritti (1605-1800), e fondo moderno implementato in particolare negli ultimi anni, sia con le donazioni di ecclesiastici e privati che costituiscono i vari fondi (Onarmo, Colonna, De Blasi, Ruppi, Pinto, De Simone, Giordano, D’Ambrosio, Graziuso, Colombo, Fiorillo, De Giorgi, Mazzotta) sia con l’acquisto grazie ai finanziamenti che la biblioteca riceve dalla Cei; inoltre particolarmente interessante è il possedimento di circa 70 testate di riviste, tra le quali la collezione completa de “La Civiltà Cattolica”, dal primo numero del 1850 e le 20 annate del quotidiano “L’Unità cattolica” dal 1884 al 1904.

La biblioteca, in quanto luogo di cultura, è di tutti e per tutti; partecipa a progetti promossi dalla Provincia: catalogazione in rete (SBN) del patrimonio librario antico e moderno, digitalizzazione dei testi antichi; aderisce e incrementa i progetti con le scuole di primo e secondo grado e con l’Università, ospita tirocinanti; da diversi anni tiene una mostra permanente costituita da manoscritti e testi antichi.

Tra i manoscritti in esposizione, una nota di attenzione merita il manoscritto di Cesare della Riviera Il mondo magico de gli heroi […] dal medesimo autore ricorretto, e accresciuto, con aggiunta di due copiose tavole […], con privilegio, in Milano, per Pietro Martire Locarni, 1605 di cui si posseggono pochissimi esemplari a stampa. Una prima edizione risale al 1603, in Mantova per i tipi di Francesco Osanna; la seconda edizione riveduta viene data alle stampe a Milano nel 1605, per i tipi di Pietro Martire Locarni.

Per i testi antichi in esposizione non può passare inosservato l’incunabulo di Nicola Perotti (1429/1430-15 dicembre 1480) Cornucopiae (Venetiis, per Paganinum de Paganinis, 1489). L’opera nasce da una polemica - corre l’anno 1474 - con Domizio Calderini, umanista e segretario apostolico di Sisto IV, sul testo di Marziale, polemica che porta Perotti a scrivere il Cornucopiae, enciclopedico commento a Marziale dedicato al duca di Urbino (Urb. lat., 301). Si tratta in realtà non «tam unius poetae quam totius linguae Latinae interpretatio» (Proemio, 3): una summa del sapere umanistico, fonte dei lessici di Ambrogio Calepino e Robert Estienne, ricca di discussioni linguistiche ed erudite, nonché di migliaia di citazioni da autori antichi, in parte non tramandate altrove, forse falsificazioni umanistiche. Nel Proemio il nipote Pirro racconta che lo zio aveva composto l’opera ad uso personale: egli l’avrebbe copiata segretamente aggiungendo il commento ai versi di Marziale più osceni, l’avrebbe, inoltre, corredato dei riassunti degli epigrammi, nonché di rubriche e indici, nella speranza che Federico da Montefeltro la desse alle stampe. Ma solo nel 1489 il duca Guidobaldo I finanzia la prima delle molte edizioni quattro-cinquecentesche (38 fino al 1536, tra le quali una edita da Aldo Manuzio a Venezia nel 1513), dove figurano gli indici promessi nel proemio ma assenti nel manoscritto.

Altra opera importante è la Divina Commedia di Dante proveniente, come riportato manoscritto sul foglio di guardia, dalla biblioteca del medico Francesco Giuliani di Nardò, morto nel 1821.

L’edizione oltre al testo della Divina commedia, riporta la fusione del commento del Landino (edizione veneziana Aldina, 1502) con quello di Alessandro Vellutello (edizione veneziana di Marcolini, 1544) opera questa realizzata dall’umanista Francesco Sansovino nelle tre edizioni (1564, 1578, 1596) per i tipi dei Fratelli Gio. Battista e Gio. Bernardo Sessa di Venezia.

L’edizione di cui si parla è la terza edizione (1596) che insieme alle altre due (1564 e 1578) sono chiamate in Francia dello Chat, dalla marca tipografica (un gatto con il topo in bocca e il motto «Dissimilium in fida sotietas»), in Italia del “Gran naso” o del “Nasone” con allusione al ritratto di Dante sul frontespizio entro una ricca bordura silografata; il modello per il ritratto è probabilmente la pittura, variante del ritratto del Vasari (conservato a Cleveland) inoltre, queste edizioni, si possono definire le prime edizioni della Commedia che riuniscono i commenti del Landino e del Vellutello, quindi una delle prime edizioni accademiche. Questa ristampa è notevole per aver subito i rigori della censura inquisitoriale di Spagna (Indice espurgatorio del 1614) che impose la correzione dei vari passi del commento del Landino e la soppressione del poema dantesco di tre parti, ossia: dei vv. 8-9 del Canto XI; dei vv. 106-118 del Canto XIX dell’Inferno, nonché dei vv. 136-142 del Canto IX del Paradiso Nella ristampa poi del suddetto Indice espurgatorio (fatta in Madrid, 1747, vol. 2 in foglio) non vi è stato più alcun riferimento della censura al Commento, né si conferma più l’ordine della mutilazione al testo.

Il testo in corsivo racchiuso dal commento in tondo a due colonne è adornato con 101 silografie totali, di cui tre illustrazioni a piena pagina e figure silografiche a mezza pagina; le immagini sono state ritenute fedeli al testo originale di Dante e la maggior parte di queste illustrazioni sono presenti al commento di Vellutello, così come furono originariamente pubblicate nel 1544 e a giudizio di Volkmann, sembra che siano le prime illustrazioni moderne della Divina Commedia.

Tra le silografie nota è quella anteposta al primo canto dell’Inferno che raffigura Dante e Virgilio, la selva, le tre fiere: la lonza, la lupa e il leone che rappresentano i tre vizi capitali: la lussuria, l’avarizia e la superbia che impediscono di salire il monte (della virtù); la seconda anteposta al primo canto del Purgatorio e rappresenta Catone, Dante e Virgilio che lo cinge su comando di Catone di un giunco (sincerità e umiltà) e la terza anteposta alla cantica del Paradiso che ritrae Dante e Beatrice illuminati da una immensa luce, luce che rappresenta la Teologia che illuminando l’uomo, dice Sansovino «nella vera cognition di Dio è stromento di farci pervenire alla beatitudine».

 

Photogallery di Arturo Caprioli.

 

 

 

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