Portalecce volentieri ripropone l’articolo apparso domenica scorsa su “Nuovo Quotidiano di Puglia” a firma del vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, mons. Vito Angiuli.
La guerra in Ucraina, tra gli altri aspetti, ha assunto anche quello di un contrasto culturale che si è concentrato in modo particolare sulla figura di Fëdor Michajlovic Dostoevskij (1821-1881). Ciò non deve meravigliare. Che egli sia stato amato da alcuni e rifiutato da altri è cosa nota. A rafforzare questa convinzione vale la pena di richiamare le parole del presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin: «Penso che molti sappiano come a Napoli un artista di strada di recente abbia dipinto sul muro di un palazzo il ritratto dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij, ormai cancellato in Occidente». Non senza ragione, nella famosa intervista a “The Atlantic”, il 10 novembre 2016, Henry Kissinger aveva dichiarato: «Per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf».
Vale anche in questo caso, quanto affermato dal poeta russo, Josif Aleksandrovič Broskij (1940-1996), insignito nel 1987 del Premio Nobel per la letteratura: «Se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima di ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì che cosa pensi di Dostoevskij, Dickens e Stendhal».
Si noti che in questa frase sono accomunati uno scrittore russo, uno inglese e uno francese quasi per sottolineare che la cultura non ha confini e che può essere fonte di accordo piuttosto che di scontro e di polemiche pretestuose. Per questo, al di là della discutibile vicenda dell’Università Bicocca, bisogna ricordare che, per i suoi stessi connazionali, Dostoevskij rimane un pensatore controverso e scomodo. Il cristianesimo di Dostoevskij, infatti, era caratterizzato dalla convinzione di non dover fare ricorso alla forza, ma di testimoniare la fede con la nonviolenza disarmata, fondandosi sulla potenza dell’amore e sulla pratica dell’umiltà, virtù propria del monachesimo dei padri spirituali, come lo starec Zosima ne “I fratelli Karamazov”.
A ben vedere, i russi considerano Dostoevskij con due sentimenti contrari: ammirazione e disprezzo. Tra i politici, sembra verosimile che Joseph Vissarionovich Stalin (1878-1953) abbia letto di nascosto i suoi romanzi, sia stato folgorato da “I Demoni” e abbia chiosato e annotato “I fratelli Karamazov”1. Invece, Lenin (pseudonimo di Vladimir Il'ič Ul'janov, 1870-1924) lo definiva il «pessimo Dostoevskij» così da affermare perentoriamente: «Per simile porcheria (l’opera di Dostoevskij) non ho tempo da perdere»2.
In era sovietica, si coniò la locuzione «dostoevskiaggine» come di un marchio d’infamia e, per esaltare il “realismo socialista,” fu preferito Maksim Gor'kij (pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov, 1868-1936). Questi divenne l’aedo del regime e il cantore del leninismo: «Lenin - egli scrisse - è l’uomo più onesto; non vi è stato ancora sulla terra uomo suo pari». Di Dostoevskij, invece, affermò: «È sicuramente un genio, ma un malvagio. Ha sentito, capito e ritratto con piacere due malattie dell’uomo russo nutrite dalla nostra brutta storia […] la violenza sadica di un nichilista che ha perso la fede in tutto e il masochismo di una creatura oppressa […] ma questo non è tutto ciò che abbiamo, c’è qualcosa di più delle bestie e dei ladri dentro di noi! Ma Dostoevskij ha visto solo loro».
Anche Anatolij Borisovič Chubajs, politico russo padre delle grandi privatizzazioni statali dei primi anni Novanta, in un’intervista al Financial Times del 2004, ha detto: «Ho riletto tutto Dostoevskij negli ultimi tre mesi. E non provo altro che odio quasi fisico per quest’uomo». Si è anche lasciato sfuggire che avrebbe voluto «fare a pezzi Dostoevskij per la sua idea dei russi come persone diverse dalle altre, sante, per il suo culto della sofferenza e per le false scelte che presenta».
Non meno discordanti sono anche i giudizi di molti scrittori russi. Alcuni lo ignorarono totalmente. Aleksej Nikolaevič Tolstoi (1828-1910) non volle nemmeno fare la sua conoscenza, salvo poi, alla morte di Dostoevskij, rammaricarsi e annotare nel suo diario queste parole: «Ora ho perso una sorta di pilastro morale […]. Mi sono confuso e poi ho capito quanto caro Dostoevskij fosse per me e ho pianto, e sto piangendo anche adesso». Il più famoso critico degli anni ’40, Vissarion Grigorevič Belinskij (1811-1848) dopo aver inizialmente esaltato l’opera “Povera gente”, cambiò radicalmente il suo giudizio, tanto che Dostoevskij lo definì un «fetido moscerino […] nient’altro che un piccolo talento senza potere e senza forza»3. Non meno grave fu la calunnia del critico Nikolaj Nikolaevič Strachov (1828-1896) il quale, in una lettera a Tolstoi, accusò ingiustamente Dostoevskij di aver violentato una bambina.
Se Ivan Sergeevič Turgenev (1818-1883) scrisse alcuni epigrammi in favore di Dostoevskij, Vladimir Dmitrievič Nabokov (1899-1977), invece, lo apostrofò con acredine e animosità tacciandolo di «isterismo letterario» e di «terrorismo spirituale» fino a definirlo un «fomentatore psichico» e uno «scrittore disturbato» dal momento che la «galleria di personaggi di Dostoevskij è composta quasi esclusivamente da nevrotici e pazzi». Anche il critico Nikolaj Kostantinovič Michajlovskij (1842-1904) non riconobbe nessun valore filosofico all’arte di Dostoevskij, considerandola a tratti sadica e difettosa, per non dire malata; un’arte senza catarsi che aveva del patologico più che dell’estetico.
Di diverso avviso, Lev Isaakovič Šestov (1866-1938), secondo il quale la sofferenza in Dostoevskij era principio e motore di una nuova filosofia irriducibilmente antinomica, una filosofia della contraddizione e non della soluzione dei conflitti. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca Nikolaj Aleksandrovič Berdiaev (1874-1948). Egli ritiene che il pensiero di Dostoevskij segni un nuovo inizio, una filosofia della libertà in alternativa alla filosofia della necessità.
Dostoevskij soffrì molto per questo ostracismo dei suoi connazionali, come attesta Valdimir Sergeevič Solov’ëv (1853-1900), suo grande amico, quando ricorda l’incredulità dello scrittore nell’accogliere la previsione della chiromante che gli pronosticava «una grande gloria». Dostoevskij cercò di rintuzzare tutti i giudizi malevoli su di lui, sostenendo che egli non credeva in Dio in modo sciocco e fanatico, che era difficile misurare la profondità dei dubbi che lo tormentavano e che, nello stesso tempo, era forte la sua fede in Cristo4.
L’11 aprile 1880, infatti, scrivendo a una conoscente che gli aveva confidato quanto fosse difficile vivere, rispose: «Credete in Cristo e nelle sue promesse? Se ci credete (o desiderate molto crederci), affidatevi completamente a lui e le pene derivate da questa contraddittorietà saranno alleviate». In definitiva e al di là delle polemiche più o meno pretestuose, Dostoevskij rimane anche per i russi uno scrittore scomodo. Non senza ragione, Lev Šestov ha dichiarato: «Chi vuole avvicinarsi a Dostoevskij deve compiere tutta una serie di exercitia spiritualia, e deve vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie».
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[1] Cfr. A. Torno, Fëdor Dostoevskij nostro fratello, Ares, Milano 2021
2 Cfr. P. Evdokimov, Gogol’ e Dostoevskij ovvero la discesa agli inferi, Edizioni Paoline, Roma 1978, p. 154.
3 F. Dostoevskij, La bellezza salverà il mondo. Pensieri. Aforismi. Polemiche, a cura di C. Sugliano, De Piante Editore, Varese, 2021, p. 13.
4 Cfr. ivi, pp. 143-144.