Sarà ricordata con una solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal card. Salvatore De Giorgi nella cattedrale di Lecce proprio nel giorno della sua memoria liturgica - visto che Papa Giovanni Paolo II nel frattempo è stato proclamato santo - la visita pastorale di cui volle far dono 25 anni fa alla città e alla diocesi.
A rileggere, oggi, i discorsi che il Santo Padre Giovanni Paolo II rivolse ai Leccesi in occasione della sua visita, il 17 e 18 settembre del 1994, e riconsiderando le immagini che d’allora restano scolpite nella memoria, si sente come un brivido che corre lungo la schiena, perché molte cose egli aveva già capito e denunciato e molte sue parole avrebbero meritato un ascolto più attento o una risposta più impegnata.
La sera del 17 si era chiaramente rivolto anche ai popoli che abitano al di là delle sponde del Salento, come del resto aveva già fatto in occasione della sua visita ad Otranto, per la commemorazione dei Martiri nel 500° anniversario dell’eccidio. Pensava e desiderava un mare di pace, quasi un ponte verso l’Oriente, per un incontro fra civiltà, per una pacifica emancipazione di tutti, a partire dai più deboli e dai più vulnerabili.
Percepiva con chiarezza le grandi risorse dei Salentini, e si mostrava del tutto consapevole delle difficolta e delle criticità.
Gli piaceva l’immagine di un Salento tranquillo, operoso, ospitale, come disse in termini chiari ed espliciti, e si sentiva rincuorato pensando alla generosità di queste genti e alla loro attitudine all’accoglienza; ma si mostrava preoccupato per la criminalità che stava mettendo radici, evolvendo verso forme organizzate e perciò anche più temibili.
Sapeva bene, e lo disse pubblicamente, che un oscuro senso di sfiducia serpeggiava fra le giovani generazioni, esposte alla precarietà, dovuta alla “mancanza di lavoro e di concrete prospettive per l’avvenire”. Con voce commossa si chiese: “Come chiudere gli occhi su tale evidenza? E come non ascoltare il lamento di tante famiglie provate dal bisogno e angosciate dalla precarietà occupazionale?”. E più avanti, dopo una breve pausa, quasi a cercare il giusto tono della voce, esclamò: “desidero dar voce a tanta sofferenza, chiedendo che tutte le forze sociali si impegnino attivamente e concordemente a trovare soluzioni adeguate a questo problema. Da qui infatti dipende il superamento di tante altre difficoltà, con cui la vostra comunità deve misurarsi”.
Ad ascoltarlo c’erano i giovani e i meno giovani, i cittadini d’ogni ceto sociale, le autorità, i sacerdoti, i vescovi di Puglia, “punto privilegiato di osservazione”, come egli disse… Pochi raccolsero le sue parole o forse non seppero tradurle in azioni ed esperienze efficaci.
Dopo un quarto di secolo, quelle preoccupazioni debbono poter diventare incentivo per le nostre iniziative, tenendo anche conto del quotidiano invito alla pace che viene da Papa Francesco, debbono poter diventare programma sociale e di un articolato progetto politico. Non è più tempo di slogan e di frasi strillate. È giunto il momento di tirarsi su le maniche e di mettersi all’opera, per diventare operatori di pace, nelle famiglie e tra le famiglie, nella città e fra le città.
Dopo millenni di presenza nel mondo non sappiamo ancora garantire, a chi lavora, né il giusto compenso, né l’incolumità e la salute. Né sappiamo difendere i nostri figlioli dall’aggressione del vizio e dalla barbarie della droga: anche in questo straordinario lembo d’Italia, che un tempo appariva tranquillo, operoso ed ospitale.
Riascoltiamo le parole del Santo Pontefice. Facciamo in mondo che di lui si possa dire: fu accolto come fratello ed ascoltato come profeta.