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Fare memoria delle vittime del terrorismo e della mafia - a volte di entrambi, per oscuri intrecci su cui non è ancora stata fatta luce fino in fondo - non è mai un esercizio rituale.

È un atto doveroso nei confronti di quelle vite barbaramente spezzate e del dolore inflitto ai familiari che certamente non si estingue con il passare del tempo. Ma è anche un gesto di grande portata civile, un’occasione di rinnovata consapevolezza da parte della società nel suo complesso, tanto più a vantaggio delle giovani generazioni che rischiano di perdere il filo di una storia in cui sono inserite e senza la quale non è possibile costruire un futuro degno di questo Paese.

C’è tutto questo - e in maniera eminente - nell’anniversario della morte di Piersanti Mattarella, ucciso a Palermo il 6 gennaio del 1980, quarant’anni fa, quando era presidente della Regione Sicilia e con il suo operato coraggioso rappresentava una grande speranza per il rinnovamento di tutta la politica italiana e dell’esperienza democratico-cristiana in particolare.

In questi giorni molto - e più autorevolmente - è stato scritto su di lui e sulle circostanze in cui è stato assassinato. C’è tuttavia un aspetto che si vorrebbe ulteriormente mettere in evidenza e che nel ragionamento complessivo accomuna la sua vicenda a quella di Moro, di Falcone e Borsellino… ed è bene fermarsi qui, a questi nomi dall’immediata rilevanza simbolica, perché addentrarsi in un elenco che sarebbe purtroppo assai lungo finirebbe per essere irrispettoso per tutti coloro che non è possibile citare, personaggi di rilievo pubblico e culturale ma anche semplici cittadini.

Questo aspetto lo si potrebbe rendere con una domanda: come sarebbe il nostro Paese se non fosse stato privato di questi uomini di cui oggi non è possibile non sentire la mancanza? La domanda è legittima.

Del resto l’aver privato il Paese dell’apporto di queste personalità non è stato un mero effetto collaterale della violenza mafiosa e terroristica, ma un obiettivo voluto e perseguito con criminale determinazione insieme ad altri obiettivi più specifici. Quelle mani omicide e i loro mandanti, su cui incombe il giudizio della storia anche quando quello della legge non si è potuto esplicare in tutta la sua efficacia, hanno sulla loro coscienza innanzitutto il sangue versato e in aggiunta il danno arrecato alla comunità nazionale, alla sua vita collettiva, alle sue istituzioni. Terroristi e mafiosi hanno insanguinato l’Italia e l’hanno anche impoverita, le hanno sottratto risorse di umanità e di futuro.

Chi scrive (e in questo contesto di giganti, noti e non noti, è una ben piccola testimonianza) nelle settimane degli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era un giovane cronista parlamentare e può dar conto del clima che si respirava anche lì, nel Palazzo per eccellenza, del turbamento persino sul volto dei politici più navigati, della sensazione angosciante che tutto stesse venendo giù. Invece il Paese ancora una volta ha tenuto e ha saputo trovare al proprio interno, nella stragrande maggioranza di forze sane, nelle istituzioni e nella società, l’energia per reagire, pur tra mille sacrifici e contraddizioni.

E anche oggi, in cui si sente la mancanza di una classe politica all’altezza delle sfide di questo tempo difficile (ma quale tempo non è difficile?) non bisogna dubitare che all’interno della comunità nazionale, in tutte le sue articolazioni, ci siano le risorse per quella ripresa etica e civile, prima ancora che economica, di cui c’è estremo bisogno. Incoraggia il pensiero che, quarant’anni dopo, il fratello di quel Piersanti ucciso in una domenica di gennaio mentre andava a messa, sia oggi il nostro Presidente della Repubblica. No, la mafia e il terrorismo non l’hanno avuta vinta.

 

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