Neanche i ministri ordinati sono esenti dalle “passioni” e dalle “tentazioni”, benché siano qualificati dalla “lex orandi” come “peccatori fiduciosi” e “servi premurosi”.
Parte da qui mons. Gualtiero Sigismondi, vescovo di Foligno, presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata e assistente ecclesiastico generale dell’Azione cattolica italiana, per parlare di “Passioni del prete, tentazioni di un vescovo”, come recita il titolo del suo ultimo libro, pubblicato dall’Ave.
“Se l’infedeltà di un prete si annida nell’attesa ansiosa di una promozione, quella di un vescovo si cela nella subdola pretesa di un trasferimento imminente”, sostiene il presule, che non usa mezze misure: “L’investimento di grazia che abilita a salire all’altare di Dio non sopporta il ‘collasso spirituale’ della mediocrità, ‘terreno di coltura’ del clericalismo, che interpreta il ministero orinato come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire”, come non si stanca di ripetere Papa Francesco. Fedeli, umili, mansueti, docili, zelanti, gli aggettivi che si attagliano meglio a preti e vescovi, chiamati in primo luogo ad essere “servi integerrimi, che rifuggono dalle ambiguità, dai compromessi, dai sotterfugi, lasciandosi guidare in ogni cosa dalla rettitudine di intenzioni”.
“È premuroso - scrive Sigismondi sulla scorta di Bergoglio - quel servo la cui autorevolezza, che raccoglie la stima di tutti, gli deriva dalla capacità di vigilare su se stesso, di sfidare la tendenza all’inerzia, l’inclinazione allo scetticismo, la comoda scelta della passività o, al contrario, dell’attivismo”.
Alla malinconia di chi “cerca i propri interessi, non quelli di Cristo”, deve contrapporsi quella malinconia buona di cui parla Romano Guardini, citando Soren Kierkegaard, “espressione del fatto che siamo creature limitate e tuttavia viviamo, per così dire, porta a porta con Dio”.
“La Chiesa non ha bisogno di ministri di culto a tempo determinato e responsabilità limitata, ma di ‘discepoli-missionari’ più appassionati e più affiatati, che non ricusano di praticare le opere di misericordia pastorale, di cui non esiste un elenco completo, ma una lista da compilare”.
È l’identikit da cui deriva l’identità più profonda del sacerdote, declinata da Sigismondi attraverso una serie di esigenti imperativi: “Accogliere, custodire e meditare la parola di Dio, senza temere di svegliare e di precedere l’aurora avanti al tabernacolo. Salire sull’altare e all’ambone sena disertare il confessionale, non solo come ministri del perdono, ma anche come penitenti. Uscire dalla sagrestia verso il sagrato, raggiungendo i crocicchi delle strade, senza rimanere all’ombra della torre campanaria. Visitare le famiglie assiduamente, senza indugio, amplificando il suono a distesa delle campane con lo squillo dei campanelli delle case. Passare dai corsi ai percorsi di fede, opera pastorale d’importanza strategica, senza rinunciare a combattere la ‘febbre degli eventi’. Lasciare ai poveri il compito di dettare l’agenda, senza tirarsi indietro, poiché l’attenzione agli ultimi è il ‘termometro’ della carità pastorale. Promuovere la vita comune e fraterna, senza ridurla a una coincidenza di interessi egoistici e senza escludere a priori la comunione dei beni”. Condire il tutto con l’olio prezioso della fraternità sacerdotale, l’avvertenza che da sfondo. Molto dettagliata la parte finale del volume, dedicata allo “scrutinio” delle tentazioni nel servizio episcopale: “La dignità dell’episcopato, come non sopporta il culto della personalità, che fa del vescovo un funzionario, un avventizio, un migratore, un burocrate di passaggio, così non tollera il lamento permanente di chi, compulsivamente, controlla il polso e misura la febbre della comunità che gli è affidata”.