Nei giorni in cui celebriamo la Memoria, è giusto e forse doveroso riflettere sull’essenza stessa della memoria, spesso ridotta a folclore o a polveroso repertorio di vecchie storielle o a comodo paraocchi per non vedere le turbolenze della quotidianità.
Conviene allora precisare e distinguere: la memoria ci attraversa, ci occupa l’animo, qualche volta ci stringe il cuore, e tuttavia non ci appartiene. Nostro è soltanto il ricordo o, come diceva Giambattista Vico, la reminiscenza.
La memoria, invece, ci è data in dono - a seconda dei casi - dalla cultura, dalla storia, dalla fede. È come acqua viva che scende dal monte e alla quale ci accostiamo per dissetarci. Per questo possiamo ben dire che la memoria è tradizione che si fa vita e viene donata a ciascuno di noi, per sollecitarne l’azione. Non è una perla da prendere e conservare nel forziere; ma un lievito da manipolare e da far crescere nella dispensa. Il ricordo ci riporta all’immagine della fonte, la memoria ci dona e ci ridona il fresco dell’acqua di sorgente; ogni volta ci disseta ed ogni volta ci spinge ad andare avanti.
Un saggio filosofo dell’antichità, Aristotele, diceva che la memoria inquieta, qualche volta addolora, in ogni caso smuove all’azione. La memoria è ricerca, egli diceva. E quindi ha sempre in sé una carica di problematicità. Se invece produce pacati pensieri, felici suggestioni, tranquilli riposi, allora non è memoria; ma semplicemente nostalgia. E la nostalgia ammorba l’animo perché spinge alla sosta e alla fissità. Era nostalgia quella suscitata nel Carducci dai cipressi di Bolgheri ed era nostalgia quella che suggeriva le ingenue parole di Pietro: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia…”
No. Bisogna andare. La fissità toglie slancio alla persona. Anche l’esperienza della gioia, allora, diventa memoria soltanto se determina un movimento, se apre il cuore e non lo chiude, se produce domande, se non si lascia imprigionare nel forziere.
Possiamo, ad esempio, celebrare la memoria delle immani sofferenze vissute 70 anni fa e non vedere le immani sofferenze che distruggono la speranza e la vita di intere generazioni nei giorni d’oggi? La memoria è iniziativa, è movimento, è azione, è progettualità…
Il ricordo è sempre un ricordo di sé, il ricordo di quanto abbiamo sperimentato, la memoria invece è testimonianza di qualcosa che è sì, nostra, ma mai in esclusiva. Persino, quando la raccontiamo con le nostre parole, come pure dobbiamo fare, dobbiamo averne cura, per appesantirla imprudentemente.
La memoria, che è custodita, tramandata e partecipata, trova il suo luogo naturale sempre in un 'Noi': un gruppo, una società, una Chiesa. All’interno di questo 'Noi', prendono identità il 'Tu' che mi parla e 'l’Io' che risponde. Il 'Noi' viene perciò prima. E quindi la memoria non chiede altro consenso se non quello personale, individuale.
Alla memoria non si applica il metro dei sondaggi e non ha lo spessore del consenso. Non accetta misure. Anzi, è essa stessa misura: misura della verità; perché memoria e verità coesistono. E quindi quando parliamo della memoria non possiamo dire che è vero perché molti la pensano in un certo modo; possiamo invece dire, utilizzando ancora il nostro esempio, che molti sono assetati e lo sono perché restano lontano dalla sorgente. In questi casi, la colpa, per dir così, è di chi facendo memoria la trattiene e non la rende esperienza condivisa. Attenzione: se c’è oggi qualche negazionista, cerchiamo di verificare quanti sono quelli che trattano il lievito come fosse una perla da trattenere nel forziere, scopriremo che cosa c’è da fare.
E sì, la memoria inquieta, scuote, apre gli occhi e spinge alla ricerca. Aveva ragione Aristotele.