Non c’è un’ideologia della chiusura alla base dei provvedimenti, anche drastici, che vengono presi in questi giorni per contenere il contagio da coronavirus.
Non è inutile sottolinearlo perché viviamo in una stagione in cui sulla “politica dei muri” si è cercato (non solo in Italia) di costruire un consenso a buon mercato cavalcando - e spesso alimentando - le paure collettive. E perché a nessuno venga in mente di strumentalizzare, oggi e in futuro, gli eventi e le scelte di questa fase per rilanciare un messaggio egoistico e divisivo.
Si chiude (e in questo verbo sono compresi tutti i comportamenti richiesti dalle regole anti-contagio) perché gli scienziati ci hanno spiegato che la diffusione si ferma soltanto evitando o rimodulando profondamente i contatti tra le persone, per un periodo che ancora non è possibile quantificare. Un sacrificio enorme, sul piano sociale come su quello economico, che bisogna accollarsi per il bene di tutti e di ciascuno. Sembra un paradosso, ma in un certo senso si chiude per solidarietà, esattamente al contrario di quanto teorizzano gli ideologi della chiusura. Nella concretezza di queste giornate inimmaginabili fino a poco tempo fa, alzi la mano chi non abbia sperimentato più di una volta un istintivo moto di diffidenza verso le persone che ha intorno, come se tutti fossero potenziali portatori di un virus di cui non abbiamo ancora preso le misure. Sarebbe ipocrita e anche controproducente negarlo, perché le paure vanno accolte e affrontate con le armi della ragione, non nascoste sotto il tappeto.
Rispettare con senso di responsabilità le regole che le autorità preposte hanno emanato per tutti, è la risposta più sensata a queste paure. È anche un modo in cui ci facciamo carico gli uni degli altri.
Del resto, in questo inedito scenario di chiusure emerge un fortissimo bisogno di solidarietà. La chiedono, giustamente e con urgenza, gli operatori e le popolazioni delle zone più colpite, immerse in una condizione che dall’esterno non è facile comprendere fino in fondo. Ma in generale nessuno può essere lasciato solo o, viceversa, illudersi di potercela fare da solo. L’epidemia ha smascherato brutalmente questo tipo di pretesa. Risulta evidente come non mai l’esigenza di muoversi come Sistema Paese o, meglio ancora, come comunità nazionale. Certi regionalismi autoreferenziali hanno mostrato immediatamente la corda in un frangente del genere. Ma non è certo questa l’ora delle recriminazioni.
Tutto il Paese ha bisogno di mobilitare tutte le risorse disponibili e impiegarle nel modo più efficiente possibile a partire dalle situazioni più critiche e cercando di prevenire e anticipare i problemi nelle aree allo stato meno investite dal virus.
Né questo bisogno di solidarietà si ferma ai confini nazionali. Anzi. Adesso proviamo sulla nostra pelle quanto sia penalizzante non poter contare su un’Europa coesa e politicamente autorevole. Per non parlare della sostanziale assenza delle istituzioni internazionali, ormai da tempo svuotate o messe ai margini dai sovranismi delle potenze mondiali.
Si chiude per solidarietà, dunque, con la speranza di poter riaprire quanto prima. E anche in quel momento, per ripartire, saranno necessarie dosi massicce di solidarietà. La loro disponibilità dipenderà da quanta ne avremo “prodotta” sin da ora.