Sono parole taglienti, verità amare quelle proferite, sulla questione vaccini, da Manon Aubry, 31 anni, francese, parlamentare europea e copresidente del gruppo della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica. Circola da poche ore il video sul web e si riferisce alla seduta del 10 febbraio scorso.
Si possono seguire QUI: più chiare di così non possono essere le sue parole. Ma non solo le sue.
Nel resoconto ufficiale della discussione all’europarlamento si legge: “I deputati hanno riconosciuto che l’Ue ha sottovalutato le sfide relative alla produzione di massa dei vaccini e che è necessario prendere con la massima priorità delle misure concrete per aumentare la produzione. Molti deputati hanno esortato la Commissione a far rispettare i contratti esistenti e, allo stesso tempo, a sostenere gli Stati membri nelle loro strategie di vaccinazione. Secondo alcuni deputati, per costruire la fiducia dei cittadini negli sforzi di vaccinazione ed evitare la disinformazione, l’Ue deve ‘dire la verità’. A tale proposito, molti deputati hanno ricordato la necessità di trasparenza sui contratti, oltre a dati completi e chiari sulla distribuzione a livello nazionale dei vaccini. Tenendo conto delle grandi quantità di denaro pubblico investito, diversi deputati hanno chiesto un maggiore controllo parlamentare sull’attuazione della strategia dei vaccini”.
Come in ogni scelta economica e politica, quella della produzione e distribuzione dei vaccini, ha cause prossime e cause remote, per lo più culturali e politiche. A partire dagli anni Ottanta, abbiamo assistito ad una diffusione della cultura capitalista, non sempre regolata da principi etici e giuridici e, di pari passo, grazie alle nuove tecnologie e a particolari situazioni socio-politiche, ad un movimento in cui le imprese hanno “globalizzato” produzione, commercio, consumi, attività in borsa e persino modelli socio-culturali occidentali. Con ritmi vertiginosi, le grandi aziende, non solo farmaceutiche, occupano luoghi di produzione, si delocalizzano, spesso senza rispettare persone e leggi. Gli Stati, purtroppo, assistono impotenti, subendo la logica del sistema, perché la maggioranza delle decisioni vitali per l’assetto economico-politico non sono prese dalle istituzioni politiche.
Si tratta di un vero e proprio “dogma capitalistico” che la pandemia ha svelato maggiormente in un settore delicatissimo come quello della salute (dai farmaci agli ospedali, dalle mascherine ai finanziamenti per nuove opere). Nella tradizione cristiana si richiama il necessario passaggio dall’economia alla politica e lo si fa in funzione di un recupero della politica, come luogo e strumento, con cui si armonizza e realizza il bene dei singoli come dei gruppi. Solo il ritorno alla politica che governa i processi economici può garantire le condizioni che permettono a tutti di crescere pienamente come persone e come gruppi. Si pensi a ciò che ha causato l’eccessiva e scriteriata privatizzazione italiana in campo sanitario e le sue conseguenze nel combattere la pandemia.
Ci aiuterà la pandemia a comprendere che il potere è sempre in funzione del bene comune e mai in vista dell’accrescimento dell’utilità? Del resto anche dove il profitto è legittimo, cioè nella corretta attività finanziaria, produttiva e commerciale, non può mai essere guadagno ad ogni costo (sulla pelle dei cittadini, come in questo caso), ma deve rispettare una gerarchia precisa: 1. lavoratore 2. lavoro 3. profitto. L’approccio moderno è, invece, molto spesso basato su un diverso ordine: 1. profitto 2. lavoro 3. lavoratore. In esso l’attività economica ha un unico motore, la “massimizzazione dell’utilità” per cui la struttura dei bisogni viene appiattita su un unico bisogno, quello di utilità. Il sistema economico non è più concepito per il soddisfacimento dei vari bisogni umani, ma fondamentalmente per arricchirsi e questa mentalità pervade, corrompe e snatura diversi settori della comunità politica. Si pensi a quello che è successo in larghi settori della sinistra europea, spesso appiattita sul dogma del profit, sempre e comunque.
Rivedere e riformare le scelte politiche nella produzione e distribuzione dei vaccini, ipotizzare una produzione nazionale con un preciso controllo dello Stato (e fatti salvi i diritti dei brevetti) non è un ritorno al comunismo. Chi molte volte agita lo spauracchio del comunismo, in diversi casi, sta solo difendendo gli interessi occulti delle multinazionali. Ciò che eticamente urgente e inderogabile è il rafforzamento della politica, che tra teatrini (italiani) e grandi interessi globali, non può, soprattutto ora, soccombere.
Del resto l’impegno di non assoggettamento acritico o interessato alla mentalità utilitaristica, è sancito negli artt. 2 e 3 della nostra Costituzione: la Repubblica assume “i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale e si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non ci vuole fede religiosa per sottoscrivere l’appello di Papa Francesco, ma solo interesse autentico per il bene di tutti, a destra come a sinistra, come al centro: “Non posso mettere me stesso prima degli altri, mettendo le leggi del mercato e dei brevetti di invenzione sopra le leggi dell’amore e della salute dell’umanità. Chiedo a tutti: ai responsabili degli Stati, alle imprese, agli organismi internazionali, di promuovere la cooperazione e non la concorrenza, e di cercare una soluzione per tutti: vaccini per tutti, specialmente per i più vulnerabili e bisognosi di tutte le regioni del Pianeta. Al primo posto, i più vulnerabili e bisognosi!” (25.12.20).
*presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma