Leggo i 15 Salmi delle salite. Con le loro sillabe di origine i pellegrini salivano per la Pasqua a Gerusalemme. “Alzerò gli occhi verso le alture da dove verrà il mio soccorso”.
Al tempo di Gesù, sotto l’occupazione militare di Roma, la festa era la più solenne e la più sentita. Quella Pasqua ebraica festeggiava e festeggia il ricordo della liberazione dalla servitù in Egitto. “Quest’anno servi, l’anno venturo figli di libertà”, si dice ancora nelle tavole ebree da più di venti secoli.
Nel pellegrinaggio in salita verso Gerusalemme era più pesante l’affanno nel fiato di un popolo oppresso. Non incombeva solo la pressione fiscale del tributo da sudditi, di più pesava la persecuzione religiosa. Per i precursori del monoteismo, della divinità unica e assoluta, bruciava come un’ulcera l’immagine di Giove/Iuppiter sul tempio di Gerusalemme. Nella tenacissima resistenza contro l’occupante già migliaia di giovani vite erano state appese al patibolo romano della trave a T, esposte alla pubblica vista. Per ulteriore oltraggio i corpi dei condannati erano nudi.
Gesù sale con i suoi entrando in Gerusalemme su di un’asina bianca, per tradizione una cavalcatura riservata ai re. Il popolo accorso da ogni parte di Israele gremiva la città e la legione romana era pronta a reprimere ogni protesta. La folla si stringe intorno all’uomo entrato sull’asina bianca. È simbolo di indipendenza, di richiamo al regno fondato da Davide, che scelse Gerusalemme per sua capitale. L’uomo sull’asina è suo discendente, tramite Giuseppe suo padre adottivo.
Intorno a lui cresce entusiasmo e attesa. Lui va al tempio seguito da una folla che lo acclama. Sulla spianata compie un gesto di liberazione scacciando le bancarelle dei mercanti dal luogo sacro, anche loro saliti per l’occasione di un buon profitto.
Espellerli dal tempio è un atto che riconsacra il luogo dove Israele celebra l’Adonài Ehàd, il suo Signore Unico. In quel momento gli idoli romani e il loro potere sono sospesi.
Il popolo s’infiamma, l’insurrezione è pronta, basta una parola del discendente di Davide. Ma lui non è venuto per avviare una delle tante imprese rovinose di resistenza contro l’invasore. È venuto per convertire, non per sovvertire. È salito per la festività non per la strage. Mentre il popolo aspetta da lui il segnale per liberare la capitale dall’esercito romano, già pronto a non farsi sorprendere, lui esce con i suoi dalle mura, sciogliendo l’equivoco di essere a capo di una rivolta. Va a celebrare la cena di festa in un posto appartato.
Il popolo deluso nella sua speranza, vede sfuggire un’occasione rara di ritrovarsi in massa in Gerusalemme accanto a chi era entrato come un re, suscitando sentimenti di riscatto.
Il popolo oscilla nei suoi umori, rinnega chi ha acclamato il giorno prima. Non muoverà un dito per colui che avevano intravisto come un liberatore. La sua fine doveva avvenire come prescritto, in immolazione su di una spellata collina.
L’occupazione straniera sta ai nostri giorni come l’epidemia: restringe spazi, limita le celebrazioni sotto la pressione delle emergenze sanitarie. Contro di essa non vale l’insurrezione, occorre invece isolare l’invasore. Gli vanno sottratti i suoi spazi di manovra, di penetrazione.
La cacciata dei mercanti dal tempio corrisponde alla chiusura dei molti esercizi commerciali e produttivi, il tempio è il corpo sociale da difendere. È un’altra Pasqua di provvisorio esilio. “Quest’anno servi, l’anno venturo figli dì libertà”.