Il 31 marzo di un anno fa cucinavo dolci e giravo videodiari per cercare di ridere e far ridere in una situazione in cui, probabilmente, la disperazione era dietro l’angolo.
O, forse, dietro il divano della casa che era diventata la nostra gabbia d’oro. Oggi, 31 marzo, qualche dolce lo cucino ancora, quando mi va, ma di girare videodiari ho smesso. Non credo sarei più in grado di cogliere quella parte buona che tanto ha fatto divertire i miei amici sul mio profilo Instagram. È un’altra situazione, certamente.
Primo anno di università. Era gennaio 2020 quando, senza confidare niente a nessuno, comprai i libri per prepararmi ai test. Economia e Gestione dei Beni Culturali. Ottobre 2020: ho fatto la valigia, sono partita. Milano, il grande sogno.
Dieci giorni dopo, eccomi sul treno che mi riporta a Lecce. Una grande busta, uno zaino e un taxi che mi lascia a un’ora dalla stazione perché “È tutto bloccato, c’è il Giro d’Italia.” Di Milano ho visto il duomo, Flying Tiger, via Ripamonti, la biblioteca dell’Università Cattolica e un’altra aula, enorme. Ho visto un paio di supermercati e la casa che avevo preso in affitto e in cui mi sono rinchiusa per 7 giorni sui 10 che ho passato lì, preoccupata dalla noncuranza di chi usava i mezzi pubblici e camminava in città.
Non mi pesa studiare da casa, qui a Lecce. Elemento che si potrebbe di sicuro sottovalutare, se non fosse che denota una tendenza ad abituarsi a quello che sta succedendo. Tendenza che si tramuterà- non ho dubbi- nell’inquietudine angosciante di tuffarsi nell’avventura milanese e universitaria e negli attacchi di panico per gli esami in presenza. Non sono l’unica, ne sono consapevole. Ho un gruppo, con i miei amici. Una “chat”, così la chiamano gli adulti. Ogni giorno, a turno, uno di noi si lamenta della situazione. Scrivendone mi viene perfino da ridere. Perché, ammettiamolo: si sfiora il tragicomico.
Ogni mattina mi sveglio, ore 8.50. Dieci minuti prima della lezione, trenta se ho da recuperare qualche pagina che il giorno prima non avevo voglia di studiare. Preparo la colazione - sempre la solita, gallette di riso e marmellata di fichi e zenzero, rigorosamente senza zucchero -, porto il piatto sulla scrivania, aspetto si attivi la room virtuale. Ho imparato questi gesti meccanicamente, a partire dal 9 marzo 2020.
Dovevano essere i miei 100 giorni prima della maturità, li ho trascorsi a rispondere a videochiamate su Zoom dei miei professori. Ci si conosceva, si scherzava, si perdeva tempo. Ora non conosco i volti dei miei compagni. Non so se ascoltino i The Neighbourhood o se siano super fan dei Nirvana, non so se mangino il sushi o se preferiscano le tagliatelle alla bolognese, non so se hanno sbagliato corso di laurea o se, in fin dei conti, sono soddisfatti anche delle tre ore di diritto privato alla settimana. Non so nemmeno da dove vengano, se non per qualche audio in dialetto toscano inviato sul gruppo per chiedere appunti. Informazioni quasi superflue, direte voi. Eppure mi piacerebbe avere un’immagine impressa nella mente, seppur deformata dai pregiudizi (positivi o negativi che siano) della prima impressione.
Negli ultimi mesi, ho visto il mio migliore amico due volte. Non vive a Lecce, dobbiamo aspettare la zona gialla. I miei cugini sono cresciuti, non li vedo da Natale 2019. Avevano 4 e 7 anni, ora ne hanno 6 e 8. Ho paura di non riconoscerli quando torneranno qui dalla Spagna. Mia nonna si fa compagnia con le parole crociate e con i programmi di Raiuno. Poi se ne lamenta, “Parlano sempre delle stesse cose”, ma finisce sempre per guardarli. Si consola così.
Ieri è morto un uomo, era quasi suo fratello. Non è potuta andare al funerale. Ha pianto. Ho sistemato i poster attaccati al mio armadio. Per vedere questa stanza, che ho imparato a memoria, da un’altra prospettiva. Se devo starci chiusa dentro, almeno devo starci bene. Ho tolto la foto di Penelope Cruz, ci ho messo la scaletta di un concerto che mi regalò uno dei ragazzi che smontava il palco quella sera. Chissà se ha perso il lavoro, chissà che sta facendo ora. Andavo a un concerto una volta ogni mese, a volte anche due. Per alcuni ho chiesto il rimborso, altri li ho persi. Per altri ancora aspetto l’ennesimo rinvio.
Non so cosa sarà del futuro (prossimo) e chiedo perdono per l’estrema negatività di questa parentesi. Ne avevo bisogno. Ma sono stanca e mi domando quando si tornerà alla normalità. Se una normalità ancora è possibile.
Nella foto: Giovanni Cerri, Diario della pandemia, 2020, penna su carta, cm. 35×50