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“La fede va trasmessa in dialetto”, ha rilevato Papa Francesco parlando di rinnovamento, catechesi e prospettive sinodali due mesi fa. Indicando le relazioni di prossimità come requisito fondamentale per un efficace annuncio cristiano che comunica, innanzi tutto con il linguaggio del cuore, la testimonianza della propria esperienza di fede e la proposta della salvezza cristiana nella società contemporanea.

 

 

 

Una comunicazione che proprio nella nostra cultura salentina trova particolare sensibilità ed un’articolata, cospicua e feconda eredità spirituale, tramandataci con molteplici espressioni religiose.

Riguardanti particolarmente questi giorni di Quaresima e di Pasqua.

Nei diversi secoli, le molteplici usanze della religiosità popolare salentina sono state, infatti, il modo per trasmettere ed accompagnare il devoto vissuto della cultura contadina: sono davvero tante le tradizioni, che, profondamente radicate e spesso connotate da ricco folclore, rendevano la nostra povera gente protagonista di tanta religiosità.

Basti ricordare, ad esempio il canto popolare in griko de “La Passiuna” dell’area grecofona salentina, i commoventi riti e le processioni dell’Addolorata nel venerdì di passione e della domenica delle palme presso le colonne dell’Osanna, il caratteristico effetto acustico del crotalo quando “si legavano le campane” il giovedì santo, il peregrinare con visita a sette chiese per la “visita alli Sibburchi”, la funzione della Desolata nella chiesa leccese di Sant’Angelo, il crepitante rumore sui banchi delle chiese che accompagnava il momento della memoria della risurrezione il mezzogiorno del sabato santo.

Si può ritenere che fosse un modo con cui la fede vissuta dalla comunità veniva tramandata, per usare un’espressione del Papa, “in dialetto”, con il suggestivo linguaggio del cuore…

Una fede che, con il necessario rinnovamento della catechesi e della religiosità popolare, occorre riproporre parlando efficacemente all’uomo d’oggi.

 

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