Il “giù le mani dal calcio” urlato a gran voce dai tifosi, rilanciato da alcuni governi e amplificato dai media, ha portato allo stop del blitz con il quale dodici grandi società calcistiche europee puntavano alla nascita di una Superlega.
Quel “calcio dei ricchi”, come è stato definito, che puntava a massimizzare i profitti e a superare l’attuale governo del calcio europeo e nazionale. L’operazione, come è noto, si è sgonfiata nel volgere di 48 ore e ha lasciato sul campo tanti feriti. A parte la figuraccia dei dirigenti dei grandi club coinvolti, soprattutto restano i bilanci malmessi delle società (per centinaia di milioni di euro) e la consapevolezza che il sistema calcio sembra aver imboccato una fase nuova nella quale il tema della sostenibilità finanziaria avrà un peso sempre più decisivo.
Ma ciò che più sorprende dello psicodramma collettivo nel quale si sono mossi tanti attori così diversi, è la sorprendente reazione popolare al tentativo di rivoluzionare lo sport più amato al mondo, con una torsione verso la spettacolarizzazione e il business. A scapito delle dimensioni nazionali, dei localismi, dei municipalismi, delle passioni per i colori delle maglie, dei ricordi e dei rimpianti di intere generazioni. E anche dell’orgoglio mai sopito per la squadra del cuore che fa palpitare anche se gareggia nelle serie inferiori. E mai una gioia…
Insomma, in poche ore le tribù del calcio hanno respinto i tentacoli della globalizzazione. Quasi che il popolo abbia detto basta all’ultimo assalto (di matrice soprattutto finanziaria) a ciò che resta dei tratti identitari di un popolo, di una cittadinanza, di una nazione che nel calcio trova un suo modo peculiare di nutrirsi e di esprimersi. E noi italiani ne sappiamo qualcosa, con quei quattro titoli mondiali conquistati dagli Azzurri.
Tanto si è scritto e indagato, nel corso degli anni, sul pianeta del calcio. Come incarnazione dello spirito di un popolo, come strumento di contenimento dei conflitti sociali, come spazio per una competizione in grado di premiare il merito e i valori sportivi e persino di sublimare gli istinti peggiori e incanalarli. E ogni qualvolta la violenza ha fatto capolino negli stadi è stato come uno schiaffo a tutti noi, quasi la dissacrazione di un rito con una sua propria carica ideale e sentimentale, se non addirittura sacrale. Per restare a noi italiani, basti pensare allo sgomento per la strage dell’Heysel (29 maggio 1985) durante la finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool che contò 39 vittime di cui 32 italiane, a causa della violenza incontrollata degli hooligan inglesi. O, per altri versi, per la sua dimensione persino poetica, alla tragedia di Superga (4 maggio 1949) che spazzò via il Grande Torino. Facendo di quella squadra di campioni, morta in un incidente aereo, un mito incorrotto per tutti gli amanti dello sport.
Di sicuro, la vicenda della Superlega va oltre i confini dello sport e apre uno squarcio sulla nostra umanità: siamo ancora capaci di pronunciare dei “no” sonori e motivati. Sia pure mossi dai sentimenti e in barba alle convenienze del momento. Eppure, ci restituisce anche un sentimento di sana inquietudine. Per quale buona ragione, per quale valore condiviso, contro quale minaccia, sapremmo trovare la forza per contrastare progetti egemonici? Quali sono per noi i limiti invalicabili, ad esempio, sul fronte dei diritti umani? E sapremmo trovare la fermezza per difendere, ove fosse necessario, la nostra libertà di credenti? Speriamo di non doverci mai trovare nella condizione di dover pronunciare dei “no” ancor più costosi. Potremmo non averne il coraggio e allora sì che ci scopriremmo davvero poveri e indifesi.