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Sono ricominciati a cura dell'Ufficio di pastorale familiare della diocesi gli incontri di preghiera e di riflessione per le coppie cosiddette “irregolari”  e che vivono un cammino di fede e riavvicinamento alla vita di fede e di comunione all'interno della comunità cristiana. Con l'arcivescovo Michele Seccia abbiamo fatto il punto.

Eccellenza, di cosa si tratta?

È stata, indubbiamente, una delle più belle scoperte che ho fatto qui a Lecce l’aver trovato un gruppo di coppie che da oltre sette anni hanno intrapreso un cammino di ricerca e di approfondimento della propria fede. Sono battezzati che si impegnano a camminare insieme e meritano da parte mia non solo un grandissimo rispetto ma anche alta considerazione e profonda ammirazione.

Chi sono queste persone? E cosa cercano?

Sono persone che hanno alle spalle le più disparate situazioni coniugali. Storie di vita matrimoniale abbastanza tormentate, storie che spesso hanno provocato profonde lacerazioni e un conseguente allontanamento dalla Chiesa. Tuttavia, il solo fatto che essi si ritrovino insieme per ascoltare la Parola di Dio e per dare un senso alla loro fede è già un grande risultato. Si ritrovano non solo per rispondere all’interrogativo: “comunione sì, comunione no”. Ma la vera e reale domanda è: “C’è Dio nella mia vita? Cerco veramente il Signore? Invoco la sua Misericordia? È questo il nucleo fondamentale. Noi, con l’occhio più giuridico o giudiziario vorremmo stabilire dei confini ma dobbiamo anche tenere conto che la grazia di Dio non ha confini. Allora è giusto un cammino ecclesiale di fede in cui ritrovare anche una dimensione spirituale. Un percorso che aiuti le coscienze ad interrogarsi non per superare la legge della Chiesa ma per interpretarla alla luce della misericordia di Dio.

Ritiene di poter promuovere ancor di più in diocesi questo tipo di cammini?

Sono cammini che devono rientrare in quella che è la pastorale della famiglia, che non è solo finalizzata a giungere al matrimonio o a formare gruppi famiglia in preparazione al matrimonio, ma deve insegnare come vivere il Vangelo nella realtà familiare da un punto di vista innanzitutto sacramentale e poi anche sociologico. Bisogna affrontare anche il discorso della convivenza, che è divenuta serio e problematico nel tempo, non già nel sentirsi giudicati dagli altri ma per la mancanza di un amore coniugale e sacramentale. E qui nasce la necessità di questo surplus di dialogo nella fede con il Signore.

Non ritiene che ci sia bisogno anche di un salto culturale all’interno della Chiesa rispetto a queste situazioni?

Occorre prima capire cosa s’intende per salto culturale. Personalmente intendo l’approfondimento tanto della dottrina quanto della Parola di Dio e del senso pastorale autentico perché il buon o il bel pastore, Gesù stesso, è colui che per primo prende l’iniziativa. D’altra parte nella parabola del figliol prodigo chi prende l’iniziativa in entrambe le situazioni è sempre il Padre. Quindi, non solo il salto culturale nell’interpretare meglio il Vangelo su noi stessi ma anche un salto di relazioni sociali autentiche, sia per il battezzato ma anche per chi non crede e tuttavia vuole una società di relazioni umane autentiche e l’affermazione della verità. Però spesso accade che la verità stessa, come verità oggettiva, non venga superata da uno slancio di relazioni autentiche, perché forse non sempre riconosciamo che l’errore è alle nostre spalle e non ha senso tenerlo sempre davanti. Se l’errore ci fa da barriera con la nostra coscienza non potremo mai guardarci negli occhi e riconciliarci serenamente perché rimaniamo bloccati su ciò che c’è stato. Ma se c’è il riavvicinamento e termina tutto con un abbraccio avviene anche la riscoperta della dignità della persona e, se c’è fede, nel “Padre nostro” e non solo nel “Padre mio” che è nei cieli, allora vi sarà anche l’autentica verità.

 

 

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