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Uno dei più imponenti ed invasivi impianti mentali del XXI secolo è l'individualismo. Da un punto di vista teologico, l'uomo sembra aver dimenticato la propria vocazione originaria, l'essere creato ad immagine e somiglianza di Dio e, con ciò, il suo costitutivo essere in relazione; egli sembra persino trarre gratificazione più dalle cose più che dagli altri e, quand'anche sperimenta il rapporto con l'altro, generalmente lo 'cosifica'.

 

 

 

Le ripercussioni etiche e sociali di un tale impianto mentale, per cui l'uomo è portato a vivere solo di sé e dei propri interessi, possono essere però arginate invitando l'uomo ad uscire da sé per entrare nell'altro e capire chi è, cosa pensa, cosa vuole e cosa sente: è quello che, in filosofia, si chiama ‘empatia’. Ne discutono, in questo breve dialogo, un professore di filosofia dell'Università del Salento e dell’Istituto superiore di scienze religiose "Don Tonino Bello”, Igor Agostini (autore delle domande), ed un giovane studente, Vincenzo de Rasis (autore delle risposte), che ha appena conseguito il diploma di licenza (laurea magistrale) in scienze religiose con una tesi sull'empatia nella filosofa Edith Stein (Breslavia, 12 ottobre 1891 - Auschwitz, 9 agosto 1942), poi divenuta carmelitana col nome di Teresa Benedetta della Croce e infine canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998.

 

 

Il concetto di ‘empatia’ è stato ampiamente dibattuto, e diverse discipline sono intervenute a discuterlo: psicologia, filosofia, letteratura, e non solo. Concentrandoci sull'apporto della filosofia, caro Vincenzo, quali sono i filosofi e le concezioni che hanno maggiormente segnato, a suo avviso, la storia di questo concetto?

Sull'empatia, in effetti, si è detto e scritto molto: da studi strettamente filosofici si è giunti a studi neurobiologici, dall'alta letteratura si è arrivati a modalità di discussione divulgative e persino colloquiali, a volte anche allargando in maniera persino equivoca il significato del termine. Talvolta, si è purtroppo attribuito a questo argomento o troppo valore (quasi fosse un superpotere o una sorta di ‘sesto senso’) o troppo poco (si veda il libro Contro l'empatia del giornalista Paul Bloom). È per questo che mi sembra prioritario restare anzitutto fermi al dato storico, che ci dice che l'origine del concetto di empatia è strettamente filosofica. Uno dei padri dell'empatia è il predicatore e filosofo romantico Johann Gottfried Herder, che descrive il fenomeno empatico come un «sentire sé stessi nell'altro»: il metro di paragone per rapportarci al prossimo siamo sempre e comunque noi stessi. Dopo Herder, occorre menzionare Theodore Lipps, filosofo e psicologo del primo novecento: egli vedeva il fenomeno empatico come una sorta di processo di imitazione interiore; di modo che, quando vedo qualcuno fare qualcosa, istintivamente lo imito interiormente e, alle volte, anche esteriormente. Io mi ritrovo completamente presso l'altro e faccio (o mi ritrovo a fare) ciò che lui fa. Questa visione è stata rigettata da filosofi successivi, e certamente anche in ambito fenomenologico. La figura di spicco, qui, è quella di Edith Stein, la futura santa e compatrona d'Europa, che dedicò all'empatia un’intera opera, la sua tesi di dottorato dal titolo Sul problema dell’empatia. Per Stein l’empatia è un processo in tre stadi: il primo è l'accorgersi, semplicemente, dell'altro, il percepire che in lui o in lei potrebbe esserci una gioia oppure un dolore; il secondo è l'entrare presso l'altro, volgermi al suo vissuto come se io ne fossi il soggetto, senza tuttavia averlo ovviamente vissuto io stesso; il terzo è il ritorno in me, per cui io non rimango presso l'altro imitandolo - come direbbe Lipps - ma torno in me e, riacquisendo quella distanza che ci separa, lo comprendo maggiormente. A questo punto mi sento molto più vicino alla sua esperienza, l’ho conosciuta, sono vicino alla sua gioia o al suo dolore. Ho conosciuto, empatizzando con lui, come si sente veramente, ho conosciuto anche parte del suo mondo (come vede lui il mondo) e - infine - anche una parte di me. Quindi per Stein l'empatia non è una banale imitazione, o come in maniera cristallina si esprime Laura Boella, non è «una semplice avventura intellettuale», ma è un modo che ho di conoscere me, l'altro e il mondo che mi circonda da diverse prospettive. Stein, cioè, ci ricorda che siamo esseri-in-relazione. Queste teorie filosofiche sono state poi riprese, approfondite e confermate da non pochi pensatori del XXI secolo, come, oltre alla stessa Boella, da Dan Zahavi. Un processo simile è avvenuto anche in ambito scientifico: penso in particolare a Vittorio Gallese che col suo team di ricerca ha scoperto l'esistenza, nel cervello dell'uomo, dei cosiddetti ‘neuroni specchio’.

 

Passando adesso al tema cruciale della declinazione dell'empatia in ambito cristiano, in che modo l'empatia, intesa in senso steiniano come 'giusta distanza per stare accanto all'altro' e, dunque, come sintesi di distanza-vicinanza, può avere una rilevanza all'interno del Magistero della Chiesa e nella vita quotidiana del cristiano?

La definizione di empatia come 'giusta di stanza per stare accanto all’altro' rispecchia la riflessione di Edith Stein. Quando empatizzo non mi fondo con l'altro, ma comprendo meglio il vissuto altrui, pur rimanendo io un soggetto e lui un altro soggetto. È questa la grandezza della riflessione di Stein: la mia libertà, la mia volontà e la mia persona sono salvaguardate. Nella mia libertà ho altresì inteso il vissuto dell'altro e posso così decidere di stargli accanto o meno. Posso decidere, cioè, per citare il Vangelo, di essere tanto un levita quanto un buon samaritano. L'incontro con l'altro non può mai lasciare indifferenti: non si può conoscere l'altro come si conosce un banale fatto di cronaca. Conoscere l'altro smuove interiormente l’io più profondo. Proprio per questo la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Lettera Samaritanus bonus eleva l'empatia a virtù, umana e cristiana. Questa definizione porta l'empatia ad un livello più alto, quello morale, ma anche sovrannaturale. In quanto virtù sovrannaturale (ma anche come ci dice il papa, dono di Dio), deve essere esercitata. Non esiste un modo unico per esercitare l'empatia, né esiste una via di accesso privilegiata ad essa e, ancor meno, al complesso mondo dell'altro. Semmai, vi possono essere dei suggerimenti per come esercitarla al meglio. Laura Boella ne indica due: 1) Incontrare l'altro dal vivo, incontrare il suo sguardo vivente, prestare attenzione ai suoi movimenti o atteggiamenti, alle sue parole; 2) Usare l'immaginazione, non quella dei bambini, ma l'immaginazione intesa quale sforzo di comprensione di un vissuto, quello dell'altro, che - ad esempio - ci sovrasta, forse perché non lo abbiamo mai vissuto o non siamo ancora in grado di capirlo pienamente.

 

Durante la LIV giornata mondiale della pace, Papa Francesco ha introdotto il concetto di ‘cultura della cura’, una cultura che intende ricollocare al centro della vita del cristiano la vocazione primaria dell'essere umano, la vocazione alla cura. Quali sono le relazioni dell'empatia con tale 'cultura della cura’?

Papa Francesco, durante la LIV Giornata mondiale per la pace, nell'affrontare la complessa tematica del concetto di 'cultura della cura', non ha inteso veicolare utopisticamente o idealmente un nuovo tipo di cultura creandola da zero, ma ha espresso fortemente l'auspicio che la cultura contemporanea, che ha in sé il germe del bene, cambi le proprie priorità. Vivere la cultura della cura significa rispondere alla vocazione primaria dell'uomo di custodire il creato «Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). La cultura della cura è anche la vita comunitaria dei primi cristiani di Atti 2, in cui ognuno vegliava sulle esigenze dell'altro. Per fare questo bisogna, però, riscoprire anzitutto la cura di Dio per le sue creature, e dunque partire da Dio per arrivare all'uomo. II papa invita a guardare tanto l'esempio di Dio nell'Antico Testamento, che come sposo fedele continua ad amare la sua Sposa (cfr. Os 2), quanto di Gesù nel Nuovo Testamento, il modello di cura per eccellenza, perché Gesù è pronto a morire pur di prendersi cura del genere umano. In definitiva La cultura della cura, è anzitutto cura della persona umana in quanto tale, del mondo naturale in cui vive e delle sue relazioni, a partire da quelle più essenziali. In questo contesto l'empatia può giocare un ruolo fondamentale. Solo conoscendo il reale vissuto, toccando con mano la gioia o la sofferenza altrui, ci si può prendere cura a tutti gli effetti del prossimo: solo ritrovandomi presso l'altro e riprendendo possesso di me posso scegliere di andargli incontro. In questo senso la costituzione di una cultura della cura può essere, per i cristiani, un modo per esercitare la virtù cristiana dell'empatia. Non bisogna tuttavia gravare l'empatia di connotazioni che essa non possiede: presa in sé, l'empatia è sterile, se non vi è una scelta concreta, una scelta morale da parte del cristiano, di agire. È una responsabilità morale decidere di non empatizzare, così come quella di non andare verso l'altro una volta conosciuto il suo dolore o la sua gioia. Solo scegliendo bene, scegliendo cioè la cura del prossimo, secondo il messaggio di Papa Francesco, può realmente costituirsi, anche nei fatti, la pace vera.

 

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