Per la pace tra Israele e Palestina si sta scendendo in piazza un po’ ovunque. L’effetto polarizzazione, però, è crescente: c’è chi colloca tutte le colpe dalla parte di una comunità nazionale e chi dalla parte dell’altra.
In alcuni casi si generano discorsi insignificanti, offensivi e poco attenti alla complessità perché più simili al tifo calcistico che a un impiego di ragione e coscienza, degni di questo nome. C’è ancora spazio per la discussione e il confronto? Spesso penso proprio di no. Abbiamo impoverito il dibattito decidendo che: la guerra è giusta, se a farla è la mia “squadra”; che non si poteva fare altro che lanciare bombe su buoni e cattivi; che il terrorismo si può combattere solo aggredendo in larga scala l’aggressore o il luogo dove abita normalmente; che la diplomazia non serve quando si devono mostrare i muscoli. Ragione politica e fede religiosa sono in minoranza ovunque, anche dove dovrebbero essere di casa.
Allora come riaprire il dibattito? Partendo dalle vittime, da una parte e dall’altra; partendo da bambini, anziani e indifesi, uccisi dai Palestinesi come dagli Israeliani; partendo dai civili colpiti in un territorio come nell’altro. Schierarsi dalla parte di tutte le vittime incanala il discorso a ricercare le cause antropologiche e storiche di tanto odio tra israeliani e palestinesi.
E la storia non è neutra, la storia evidenzia responsabilità precise: chi dalla nascita dello stato di Israele (1948) ha lavorato seriamente per risolvere la questione palestinese e chi invece ha inasprito gli animi di tutti, da una parte e dall’altra? Cosa hanno fatto le varie generazioni politiche dei Paesi più coinvolti nel conflitto per risolvere la questione palestinese (Usa, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia ecc.)? Che ruolo hanno giocato le comunità religiose ebraiche e musulmane, in Israele e in Palestina, come nel resto del mondo? Hanno educato alla pace o hanno alimentato odio? Hanno, le religioni monoteiste, compreso sempre più che guerre e violenze negano il nome di Dio e non sono mai un culto a Lui gradito, ma solo un nefasto tradimento del volere divino di pace?
Ma se si assiste alla serie di dichiarazioni di molti politici nordamericani ed europei (italiani compresi) a favore di Israele (e spesso senza distinguo), come si ascoltano i cori e le dichiarazioni dei pacifisti pro Palestina si ha l’impressione che solo alcune vittime vengono ricordate. Ma quando ci interessano solo alcune vittime e non tutte, non siamo per la pace, perché questa, autentica, deve raggiungere tutte le persone e tutti i luoghi coinvolti.
L’interesse e l’amore per le vittime dovrebbe portarci anche ad affermare che come è eticamente inaccettabile l’attacco terroristico di Hamas, lo è anche, per diversi motivazioni, la “risposta” di Israele. La guerra a un popolo, come risposta all’attacco di Hamas, è un atto sproporzionato che colpisce innocenti e presunti colpevoli, come di fatto succede in un attacco terroristico. Il terrorismo si combatte con l’intelligence e con operazioni di polizia nazionale e internazionale, non con la guerra contro un popolo (anche se si dà ad esso l’ipocrita preavviso che si sta per colpirli). Se non ci sarà un cambio di rotta in queste reazioni sproporzionate e quindi immorali (che sono ben diverse dalla legittima difesa popolare, cosi come è stato all’inizio in Ucraina) il mondo cascherà sempre più in una spirale di guerra dagli esiti pericolosissimi per l’intero pianeta.
Senza dimenticare che la guerra sta provocando mali (vittime, esodo di profughi, instabilità nei paesi limitrofi, distruzione dell’ambiente) più gravi del male da eliminare e che i pericoli di una ritorsione terroristica su scala mondiale non sono poi così prevedibili né arginabili, vista anche la terribile crisi di alcuni sistemi di sicurezza occidentali.
La ragione è stata messa in letargo e i mostri belligeranti vengono nutriti da sentimenti di rivalsa e di vendetta, dalle logiche dei mercanti di armi e dei capitalisti senza scrupolo, dalla vergogna di far piovere bombe ed aiuti umanitari insieme. È sconcertante vedere che persino molti europei hanno dimenticato la lezione delle guerre del ‘900, nonché l’esempio dei Paesi che hanno combattuto il terrorismo con la polizia e non con l’esercito, senza dichiarare guerra agli Stati dove i terroristi erano addestrati.
Una ragione e una fede oneste ci portano ad ammettere che i terroristi sono ostaggio di una deturpazione della religione, nella rabbia della povertà e del sottosviluppo, di cui, chi lancia le bombe, insieme ad altri, ha enormi responsabilità. Ciò non è assolutamente una giustificazione della follia omicida di Hamas e compagni, da punire nella legalità. Ma, contestualmente, non si può tacere su quelle istituzioni politiche che obbediscono al dio denaro e non promuovono la giustizia e il progresso, specie dei più poveri, che sole possono garantire una pace stabile e duratura, come insegnano i papi, da Giovanni XXIII all’attuale.
Anche nelle comunità religiose c’è qualcosa di inquietante: ricordare spesso che il Cristianesimo e l’Islam sono religioni di pace e, nello stesso tempo, aggrapparsi a false motivazioni per giustificare la guerra. La lezione della pace non può essere interpretata ad uso e consumo di ciascuno.
Papa Francesco, inascoltato persino da diversi fedeli e pastori, continua a ricordare il vangelo di pace. E invece di stimolare ricerca sincera e testimonianza autentica, i suoi appelli finiscono irretiti in “distinguo” e “precisazioni”, che suonano come pesante tradimento del vangelo, oltre che offesa al Papa che ce lo ricorda con forza e coerenza.
Si sente citare, a giustificazione della guerra, anche il Catechismo della Chiesa Cattolica. È vero che questo, per casi estremi, approva una forma di intervento armato, quello di “legittima difesa con la forza militare” (n. 2309), ma le rigide condizioni richieste giustificano interventi armati non certo di questo tipo. Per semplificare: nella dottrina cattolica sono approvati azioni come l’opposizione armata per rovesciare i sistemi totalitari (per noi si pensi alla Resistenza) e la cosiddetta “ingerenza umanitaria” (per esempio l’intervento in Somalia).
È lunga e faticosa la marcia per assicurare la pace. Laici e credenti di ogni religione sono chiamati a discernimento continuo, ad una coerenza capace di andare contro corrente con passione e coraggio. Perché restano le parole amare della poetessa polacca Wislawa Szymborska: “Dio doveva finalmente credere nell’uomo/buono e forte,/ma il buono e il forte /restano due esseri distinti”.