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Attraverso le parole ognuno di noi esprime il proprio pensiero che scaturisce dalla forma mentis; questa consente di barcamenarci e di mantenerci a galla e non essere travolti dai flutti provocati dai pensieri e dagli atteggiamenti degli altri, spesso diversi dai nostri. In una parola: ci consente di non soggiacere talvolta al dispotismo.

 

 

 

Usare le parole non vuole dire soltanto dare un nome proprio alle cose, ma anche definire più o meno correttamente i sentimenti, gli stati d’animo, le sensazioni che in un dato momento stazionano dentro di noi.

A volte usiamo le parole con disinvoltura, altre volte con cautela. Alcune di esse ci sono così consuete che quasi le consumiamo per la frequenza con cui le ripetiamo, ignorando che potremmo adoperare i sinonimi. Altre, invece, ci incutono soggezione o repulsione. Quando le respingiamo vuole dire che, quasi certamente, non conosciamo il corretto significato e che, quindi, ignoriamo l’etimologia ossia la scienza che tratta la nascita delle parole. Il termine deriva dal greco étymos che vuole dire: vero, reale, genuino.

Scrive Andrea Marcolongo nell’incipit del suo libro Alla fonte delle parole (La Repubblica 2020) - che costituirà lo scrigno da cui prenderò di volta in volta le voci oggetto di rielaborazione, mi auguro appropriata - «ecco a cosa servono gli etimi: a non restare sopraffatti, senza parole di fronte all’immensità del sentire».

Per comprendere il valore profondo della parola bisogna immaginare che quando l’uomo primordiale ha articolato la prima, ha potuto attribuire un significato e un’identità alle cose, consentendogli di uscire dal caos originario. Ciò fu il presupposto che, cominciando a muovere un meccanismo intellettivo, gli permise di elaborare a mano a mano un pensiero, un’idea, una percezione, un ragionamento. Accadde, insomma, qualcosa di magico. Chissà quanto tempo durò!

Il conio di tante e poi ancora tante parole consentì, ripeto, di mettere ordine all’originario disordine universale e di assegnare un nome a ciò che prima si trovava nel più totale anonimato. Com’è facile pensare, l’ordine influì positivamente sullo spirito in quanto le indicazioni verbali permisero all’uomo di non vivere più «in un innominabile e doloroso spaesamento».

Per snellire la lettura della voce latina chaos lascio da parte i riferimenti letterari su Esiodo, ritenuto il primo che ne abbia parlato nella Teogonia, e poi su altri personaggi storici citati dalla Marcolongo. Mi soffermo, invece, sul suo etimo che significa disordine estremo, grande confusione, e sui vocaboli direttamente dipendenti come confondere ossia fondere insieme, mescolare, ottenuto dall’unione del prefisso con più fundere, versare. Tutto lascia immaginare un misto a casaccio di ingredienti, versati in una pentola e messi a cuocere sul fuoco, con un risultato imprevedibile, dal sapore dubbio.

La medesima immagine si può trasferire quando abbiamo la testa confusa, che ci pare simile alla soprarichiamata pentola dove bolliscono a casaccio, senza una logica: pensieri, richiami, ricordi, sensazioni, emozioni a cui non siamo in grado di dare un ordine…di cottura, ricevendo un senso di disorientamento oltre che un’inquietudine psico-fisica.

Nel lessico colloquiale ormai il termine confusione o caos che dir si voglia è sostituito (impropriamente) con casino o bordello, termini che identificano la casa di appuntamento o di tolleranza o di piacere (il lupanare di antichissima memoria) che, non vorrei sbagliare, per quanto vivacemente frequentata, ha una sua organizzazione interna. Non foss’altro perché una confusione nella gestione dei turni delle prostitute e dei clienti risulterebbe rovinosa per gli incassi.

Pertanto, caos e casino, sono due vocaboli che non vanno confusi per i loro inequivocabili significati.

 

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