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Il 28 gennaio la Corte costituzionale ha annunciato due sue pronunce, le cui motivazioni saranno pubblicate “nelle prossime settimane”, riguardanti la maternità surrogata.

 

 

Il primo giudizio riguarda - così la nota stampa della Consulta - “le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione sull’impossibilità di riconoscere in Italia (…) un provvedimento giudiziario straniero che attribuisce lo stato di genitori a due uomini italiani uniti civilmente, che abbiano fatto ricorso alla tecnica della maternità surrogata”.

Il secondo riguarda il “riconoscimento dello status di figli per i nati mediante tecnica di procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata all’estero da due donne”: il Tribunale di Padova, che l’ha sollevata, “ha riscontrato un vuoto di tutela”, perché le due donne hanno sciolto la loro convivenza, e questo rende non praticabile la cosiddetta stepchild adoption.

In entrambi i casi la Corte ha deciso di non intervenire. Per il primo, “fermo restando il divieto penalmente sanzionato di maternità surrogata, ha ritenuto che l’attuale quadro giuridico non assicuri piena tutela agli interessi del bambino nato con questa tecnica”, e perciò “ha (…) affermato la necessità di un intervento del legislatore”. Per il secondo “ha rivolto un forte monito al legislatore affinché individui urgentemente le forme più idonee di tutela dei minori”.

Provo una certo disagio a ricordare che nei manuali di diritto costituzionale ancora adesso si insegna che quando una norma di legge viene sottoposta all’esame della Corte costituzionale l’esito è l’inammissibilità, se la questione sollevata non è stata correttamente impostata dal giudice; il rigetto, se la norma impugnata viene valutata conforme alla Costituzione; l’accoglimento, se invece l’eccezione è ritenuta fondata, con conseguente declaratoria di illegittimità; l’interpretativa di rigetto, se la norma è ritenuta legittima a condizione che sia interpretata in modo diverso da come l’ha intesa il giudice che ha rimesso la questione alla Corte.

 

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