La politica è un’arte. Capire la politica è un’altra arte. Spiegarla è un’arte ancor più difficile. Il governo è (quasi) completo con i nuovi 39 sottosegretari (le donne sono 19), 6 viceministri, i capi di Gabinetto, i capi degli Uffici legislativi e delle segreterie tecniche, nonché i portavoce e segretari particolari.
Squadra, quasi al completo, può prendere il largo o meglio può dedicarsi all’arte di ogni dicastero, che sarà il frutto di scienza, competenza ed eticità di ognuno, presidente del Consiglio e relativo ministro in primis.
Come sono stati scelti? È una domanda quasi difficile quanto le proiezioni dell’andamento della pandemia. Qualcuno ha citato un certo “Cencelli”, non la persona ovviamente ma il metodo che porta il suo nome: una spartizione di incarichi basata su interessi politici limitati e di partito anziché sul merito, ovvero una lottizzazione ed esasperata proporzionalità nell’assegnazione del potere. I numeri lo farebbero pensare: 11 sottosegretari per il M5S (con i 4 ministri), 9 per la Lega (con 3 ministri), 6 per FI e Pd (con 3 ministri), 2 per Italia Viva (con un ministro), uno di Leu (con un ministro), uno del centro democratico, e uno di più Europa. Del resto la stessa trattativa per nominarli, con rinvii e rimandi, ha fatto più pensare al vecchio che ritorna che a un nuovo che avanza.
In generale sembra essere un governo con diverse velocità, viste anche le ultime scelte. Per governare ci vogliono limiti di velocità, massimi e minimi, uguali per tutti. E perché la politica sia arte ci vuole un “maestro d’arte” che diriga la bottega e segni il passo, indichi costantemente il progetto da realizzare e abbia il coraggio anche di mandare a casa chi, per motivi nobili o meno nobili, pensa ad altro. Non a caso la litigiosità tipica dei leader di partito pian piano sta ritornando: interviste e dichiarazioni a ogni piè sospinto, invasione dei media e dei social per marcare differenze. Il lavoro del presidente Mario Draghi diventa, allora, ancor più delicato e determinante, dove i fatti contano più delle parole. In un mondo di chiacchiere, post e tweet, ammiro molto il suo stile comunicativo sobrio e riservato.
Richiamo un passaggio molto importante del suo discorso inaugurale: “Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità” (Al Senato, 17.2.21).
“Identità di partito, collaborazione, necessità e problemi quotidiani del Paese, superamento di pregiudizi e rivalità” non possono essere garantiti da quei partiti e movimenti molto simili a feudi di potere, dove si lotta per occupare e conservare poltrone. Il ritorno di uno stile discutibile dei partiti, nella scelta dei sottosegretari, non è stato quasi per niente nella linea indicata dal presidente Draghi. Il sistema italiano dei partiti ha accumulato, almeno dagli anni Settanta in poi, notevoli carenze formative che pongono diversi politici al rischio di essere trappole delle forze più becere del nostro territorio: infiltrazioni mafiose, corruzione, insensibilità verso i problemi sociali e degli ultimi, delegittimazione politica e sociale delle istituzioni, populismi e nazionalismi, movimentismo irrazionale e inconcludente.
Spetterà a Draghi - e a chi ci crede - dettare fermamente e attuare la linea politica, senza “pregiudizi e rivalità” ma con l’intento di rispondere ai “problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese”. Soprattutto nei momenti di crisi del nostro Paese, non molti, ma pochi e buoni, hanno dimostrato come è possibile, con molta fatica, escogitare i migliori mezzi perché le scelte politiche non siano di basso profilo (se non proprio immorali e illegali) ma capaci di adempiere ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (CI, art. 2).
L’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso durante l’attacco terroristico nella Repubblica del Congo, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustafà Milambo, parlava a tutti (e sempre) del fatto che il suo lavoro non fosse una mansione, ma una missione. Il termine missione non ha solo un valore religioso ma anche laico. Essa esige una dedizione completa, con tutte le personali potenzialità fisiche, intellettuali, emotive ed etiche per produrre capolavori politici che sono il bene dei singoli e dei gruppi sociali. È la missione di tutte le autorità e di tutti i cittadini. Sempre e comunque.
*prete della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia politica
nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma