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Alzi la mano chi non ha mai avuto la sensazione di trovarsi in un labirinto, ossia nel mezzo di un fatto o di una situazione da cui è stato difficile sottrarsi senza riportare traumi o ferite morali, attirati da una impercettibile seduzione o da una accennata tentazione.

 

 

Poi, un senso di disagio e di disorientamento mentale, non privo di uno sprazzo di lucidità, giunto in tempo utile per evitare fatti poco piacevoli, che lascia spazio alla necessità di ritornare al punto di inizio, di pre-coinvolgimento, ristabilendo la percezione di trovarsi in un labirinto da cui sarebbe stato difficile uscire.

Questo famoso groviglio geometrico è stato il leit-motiv delle cattedrali medievali che, molti secoli dopo, nel Seicento, fu riproposto dall’arte topiaria; per esempio si pensi alle siepi degli splendidi “giardini all’italiana”. Non è stato abbandonato da architetti, da artisti a tutto tondo, da filosofi e pensatori e neppure dalla gente comune che usa la metafora del labirinto per indicare situazioni e problemi complicati, intricati. Avvolti, quasi sempre, da un disordine soltanto apparente.

Il termine labirinto, di incerta origine, esprime già il suo carico di tensione e il suo carattere inestricabile. Per convenzione si fa derivare dal greco labýrinthos da cui proviene il latino labyrinthus conservatosi in tutte le lingue e nei dialetti di derivazione latina.

«In sintesi - chiarisce Andrea Marcolongo nel prezioso libro Alla fonte delle parole (Gedi 2019) - si tratta di un etimo di origine sconosciuta, capace di far perdere il senso ai glottologi a forza di tentare di venirne a capo, procedendo a fatica, a tentoni…». Descrizione quanto mai felice che conferma l’illusorietà del filo di Arianna, utile a ritrovare l’uscita.

Nel labirinto è facile smarrirsi per disorientamento e, proprio per questo, trasmette l’idea del disordine, del caos (mentale più che fisico). Che, quasi sempre, ripeto, è apparente perché è soltanto una mancanza di ordine, che non sappiamo e non vogliamo (o possiamo) imporre o imporci tanto da rimane intrappolati nei suoi meandri. Questi, essendo simili a quelli del cervello, prendono il sopravvento quando…non lo facciamo girare come dovrebbe.

Ecco allora che, in uno stato di panne (leggi di confusione mentale), viene in aiuto il mito di Teseo che riuscì a tornare indietro dopo avere abbattuto il mostro raffigurato dal Minotauro. Il filo di Arianna che gli consentì di ritrovare l’uscita, divenne la trasfigurazione di una volontà razionale, di un metodo capace di abbattere il mostro - con le sue infinite declinazioni di incubo, terrore, paura - al fine di uscire dall’intrico. Più illusorio che reale perché, in realtà, il labirinto è un disegno geometrico, uno spazio ordinato e ritmato da armonie lineari.

Non mi addentro nel simbolismo filosofico del labirinto. Rischierei di non uscirne dai suoi significati intricati e multiformi. Né provo a inanellarlo con il momento politico e la questione dello stato pandemico causato dal coronavirus Sars-Cov-2 che fa ammalare della Covid-19, di cui siamo spettatori inermi.

Osservo, invece, che il simbolismo del labirinto è più vicino a noi di quanto non immaginiamo: basti pensare a Internet, allo spazio virtuale occupato, assurto allo status di fonte per l’intero cosmo, insidiosa ancorché affascinante, di un mondo estremamente fragile, una parte del quale a volte è indifeso, incompreso o non ascoltato e men che meno guidato, che si lascia abbindolare dalle stupidaggini. Con risultati mortali!

Mi riferisco ai recenti casi di istigazione al suicido di infanti che partecipano alle sfide incoscienti lanciate su TikTok. Come se fossero ritenuti vecchi e da rottamare. Non utilizzabili. Inammissibile!

 

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