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In Terra Santa, nel difficile momento che stiamo vivendo, come Capi delle Chiese abbiamo pensato, per quest’anno, di ridurre al minimo le manifestazioni esteriori legate al Natale (luci, addobbi, parate e fanfare) e di proporre un Natale all’insegna della sobrietà e della solidarietà.

 

 

 

Questo per rispetto nei confronti di chi - da una parte e dall’altra dei vari muri e reticolati che qui disegnano confini personalizzati - sta in questo momento soffrendo per il rapimento o la perdita dei propri cari o, peggio ancora, per l’incertezza di non sapere nemmeno se siano vivi o morti e dove siano.

È molto facile ridurre il dramma del Natale a una finzione. Lo sottolineava Salvatore Quasimodo in una poesia composta nel 1953 per il proprio figlio Alessandro“Natale. Guardo il presepe scolpito, / dove sono i pastori appena giunti / alla povera stalla di Betlemme. / Anche i Re Magi nelle lunghe vesti / salutano il potente Re del mondo. / Pace nella finzione e nel silenzio / delle figure di legno: ecco i vecchi / del villaggio e la stella che risplende, / e l’asinello di colore azzurro. / Pace nel cuore di Cristo in eterno; / ma non v’è pace nel cuore dell’uomo. / Anche con Cristo e sono venti secoli / il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?”.

Chi ascolta oggi il pianto del Bambino? Nel Vangelo Gesù stabilisce una identificazione piena, reale e oserei dire quasi sacramentale tra la propria persona e la persona dei “piccoli”: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me” (Mc 9,37) e “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Se celebrare il Natale vuol dire anzitutto accogliere il Figlio di Dio che si fa bambino e se questo bambino si presenta ancora a noi, oggi, in ogni “piccolo”, quale sarà il modo più evangelico, reale e concreto, di accogliere il bambino di Betlemme? Pur celebrando quest’anno l’ottavo centenario del “Natale di Greccio”, che è diventato in qualche modo il simbolo del presepe e della sua diffusione, noi ci rendiamo conto che quella raffigurazione è e rimarrà una “finzione” se si ridurrà alle “figure di legno” e alle emozioni – pur belle ma effimere e lontane dalla realtà concreta – che le figure di legno e perfino i “presepi viventi” possono suscitare.

Ascoltare il pianto del bambino, di ogni concreto e singolo bambino, è la via necessaria per riuscire ad ascoltare il pianto del Bambino di Betlemme la cui nascita celebriamo a Natale. Ascoltare il pianto del bambino, di ogni concreto e singolo bambino e di ogni “piccolo” è ciò che ci porta a percepire la sofferenza dell’altro, la sofferenza innocente, che apre il nostro cuore alla compassione e per questo anche alla riconciliazione e alla pace.

Ascoltare il pianto degli uni e degli altri, di Israele e Palestina e di tutte le vittime di tutti i tanti, troppi, conflitti bipolari che insanguinano oggi, ignorati, il nostro mondo, non da una asettica equidistanza, ma con una tale vicinanza ed empatia da sentire nostro il pianto dell’uno e dell’altro, così da poter nella nostra persona riavvicinare l’uno all’altro.

È necessario imparare ad ascoltare il pianto dei bambini strappati dalle mani dei genitori nel kibbutz Kfar Aza a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza e ascoltare il pianto dei bambini travolti da una pioggia di bombe a Gaza, a Jabalia, a Khan Yunis. Ascoltare il pianto dei bambini spaventati dalle sirene ad Ashkelon, a Shderot e a Tel Aviv e ascoltare il pianto dei bambini spaventati dallo sferragliare e dai lampi di fuoco dei carri armati a Jenin, a Nablus, a Huwara. Ascoltare il pianto dei bambini israeliani che non sanno perché non tornano a cena la mamma o il papà richiamati a combattere e ascoltare il pianto dei bambini di Betlemme che vedono la mamma e il papà tristi perché, nuovamente senza lavoro, non sanno cosa mettere in tavola a cena. Ma anche ascoltare il pianto dei bambini lasciati soli ad attraversare il “mare nostrum” in cerca di un futuro negato o abbandonati nel deserto di umanità delle città opulente e delle periferie dell’Occidente.

Se vogliamo pace non “nella finzione e nel silenzio delle figure di legno” ma “nel cuore dell’uomo”, occorre che impariamo ad accogliere il Dio infinitamente distante da noi che nel Bambino di Betlemme si fa vicino a noi, ci manifesta il suo amore e la volontà di salvarci, accogliendo anche noi come figli in quel figlio “che morirà poi in croce fra due ladri”, per rivelarci che nessuno merita la morte, nessun dolore può essere semplicemente ignorato e che la pace sarà possibile non se accolgo unicamente “il buono” ma “il malfattore”.

È davanti all’umanità intera, lacerata oggi da guerre e conflitti che sono frutto di odio, di egoismo, di interessi economici e di potere, di strumentalizzazione dello stesso santo nome di Dio che il bambino di Betlemme piange e chiede a ognuno di noi di ascoltare il suo pianto per poterci davvero guidare alla pace, per poterci davvero donare la pace donandoci se stesso. Ma, mentre “il fratello si scaglia sul fratello c’è chi ascolta il pianto del bambino?”.

Vorrei concludere cedendo la parola a San Francesco che da otto secoli rivolge a noi un invito appassionato ad accogliere il Signore Gesù: “Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga colui che tutto a voi si offre” (LOrd 28-29: FF 221). Nell’Eucaristia, nel povero e nel bisognoso, nel bambino che piange inascoltato accogliamo il Figlio di Dio, che incarnandosi e donandosi a noi, in realtà accoglie ciascuno di noi e mette pace anche nel nostro cuore, in eterno.

*Custode di Terra Santa

 

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