Don Giorgio Pastore festeggia oggi il suo giubileo sacerdotale: 25 anni fa, il 2 ottobre 1997, l'ordinazione sacerdotale da parte dell’arcivescovo di allora, mons. Cosmo Francesco Ruppi, nella piazza antistante la chiesa madre di Cavallino, suo paese di origine. Oggi, alle 10.30, nella chiesa dell’Ausiliatrice di Monteroni, dove è parroco, la solenne celebrazione eucaristica che sarà presieduta dall’arcivescovo Michele Seccia e concelebrata da don Giorgio. Ecco i ricordi e i sentimenti in questa giornata speciale.
Don Giorgio, venticinque anni di sacerdozio: quali emozioni e particolari dell’epoca sono rimasti incisi nella tua mente?
Ho studiato nel seminario di Lugano, in Svizzera: cinque anni indimenticabili, non nascondo che piansi tanto quando giunse il momento, una volta terminati gli studi, di tornare in diocesi. Io e il mio parroco di Cavallino, l’indimenticabile don Gino De Filippo, che mi ha davvero cresciuto, ci recammo dal vescovo. Quando arrivammo, monsignor Cosmo Francesco Ruppi aveva deciso già la data dell’ordinazione sacerdotale per me e altri miei tre confratelli, ovvero i primi tre giovedì di ottobre. Per me volle il 2 ottobre, festa dei Santi Angeli custodi. Fu quasi un fulmine a ciel sereno, perché pensavo che il mio momento sarebbe arrivato un anno dopo. Pensavo addirittura di dover tornare a Lugano per la licenza, ma mail vescovo mi chiese di tornare subito in diocesi e io obbedii. Invece, era quasi la fine di luglio e il vescovo ci comunicò l’ordinanza per i primi giorni di autunno.
Che ricordi conservi nel tuo cuore del giorno dell’ordinazione?
Mons. Ruppi durante l’ordinazione mi disse: diventi prete non solo sotto la protezione di Maria, la mamma Celeste, e fece un riferimento alla Madonna del Monte molto caro ai cavallinesi, ma ti proteggano nel tuo cammino sacerdotale tutti gli angeli custodi. Risuona ancora nella mia mente una frase di quella liturgia di 25 anni fa: “diventa ciò che celebri”. Una frase che mi ricorda l’inadeguatezza di essere umano al cospetto del mistero dell’Eucaristia, ma anche la sconfinata misercordia di Dio. La chiesa madre di Cavallino era troppo piccola e la mia ordinazione avvenne in piazza. C’era una folla immensa e fu quasi un evento storico per tutto il paese: a Cavallino non si assisteva ad un’ordinazione sacerdotale dagli anni 40, ovvero da quando divenne prete il compianto don Giuseppe Baldassarre. E dopo di me non ci sono poi state altre ordinazioni. Al momento solo io e padre Renato Russo, frate minore francescano, siamo gli unici preti orginari di Cavallino. Sono, però, contento che presto potrebbe esserci un’altra ordinazione, quella del giovane Gianmarco.
Quando hai capito che il sacerdozio era la tua strada? Ci sono stati momenti in cui a prevalere sono stati i dubbi, le perplessità, le incertezze, lo sconforto? Come sono stati superati?
Ho percepito chiara la mia vocazione di vita sin da ragazzo. Poi, il Signore ha sempre tenuto la sua mano sulla mia testa. Nonostante travagli e difficoltà, il Signore ha mandato al mio fianco le persone giuste al momento giusto. Ho avuto le mie crisi, le tante prove della vita e le mie incertezze, ma una vocazione vera, qualsiasi essa sia, non può che essere così, cioè qualcosa che ti sconvolge. Don Fabio Casilli, ad esempio, per me è stato un angelo prima ancora che un amico. Se oggi festeggio il 25esimo di sacerdozio vuol dire che l’amore di Dio è stato più grande e più forte di qualsiasi altra cosa del mondo. Se dovessi guardare il mio sacerdozio solo sotto l’aspetto umano e quindi sotto la lente del rapporto prete-popolo, ci sono stati anni particolari durante il cammino sacerdotale, ma mai mi è venuto in mente di mollare tutto. È stata costante infatti la presenza di Dio. Nonostante i miei peccati e le mie debolezze, il Signore ha sempre manifestato la sua presenza in tanti gesti e in tante persone, dai miei genitori ai miei amici. E non mi sono mai sentito solo. Anche quando fisicamente ero solo, anche quando sono stato in seminario in Svizzera, a 1300 chilometri da casa, dove all’inizio nn conoscevo nessuno e in una terra totalmente diversa dal calore, in tutti i sensi, del nostro Salento, non ho mai avuto la sensazione di solitudine. Tutt’altro. I primi due anni a Lugano tutti noi seminaristi siamo stati accolti in famiglie diverse: è stata un’esperienza per tutti altamente formativa.
Prima viceparroco nella chiesa madre di San Cesario e cappellano dell’ospedale dello stesso paese, poi viceparroco a Melendugno. Quindi, la prima missione da parroco a san Cesario, a sant’Antonio di Padova, e dal 2015 parroco all’Ausiliatrice di Monteroni. Come hai vissuto e come stai vivendo la tua missione da prete?
Sono sempre rimasta la stessa persona, quello che ero prima del 2 ottobre sono rimasto anche dal giorno dopo. Non mi piace stare lontano dalla gente. Conosco solo una dimensione della mia missione di sacerdote: tra la gente. Prendo in prestito le parole di Sant’Agostino: cristiano con voi, vescovo per voi. Ecco il senso della mia missione: quanto più sei legato a Dio, tanto più sei legato alla Chiesa e alla gente. La prima esperienza di parroco a San Cesario sono stati anni di crescita: sono onorato di essere stato il successore di un prete come don Giuseppe Tondo che aveva dato tutto se stesso alla chiesa. Per me era come un nonno.
Venticinque anni costellati da momenti belli, ma anche dalle difficoltà come è normale che sia. Con che spirito affronti il tuo cammino sacerdotale?
A Lugano ho avuto la fortuna di avere un rettore come don Fulvio Di Giovambattista della diocesi di Roma. La prima cosa che mi disse il primo giorno di seminario fu emblematica: figlio, ti presenti a servire il Signore? Allora preparati alla sofferenza, al fallimento, alla Croce, e non agli applausi. Parole che mi sono rimaste impresse nella mente. Il Signore parla in tanti modi, ma bisogna avere l’orecchio disponibile all’ascolto. Ci sono stati momenti di profondo sconforto come la sofferenza e la morte delle persone care che ti attraversa e ti lacera: penso alla morte di mio padre e alla scomparsa a soli 51 anni di mia cognata per un tumore proprio durante la pandemia. La Fede mi ha sempre sostenuto. Ma poi ci sono i momenti belli e sono tanti. L’esperienza con i giovani, ad esempio, è sempre fonte di felicità. Lavorare e camminare insieme è sempre qualcosa di impareggiabile. E tra i momenti più belli c’è anche il dono di aver assistito e di continuare ad assistere alla conversione profonda di tante persone. Continuo a soffrire molto, invece, quando vedo una Chiesa ridotta e vissuta da tanti come un distributore semiautomatico di sacramenti e non come cammino comune, oppure quando le celebrazioni si trasformano in spettacoli. L’augurio che posso fare a me e a tutti i battezzati è di farsi attraversare totalmente dal mistero dell’Eucaristia, tutto il resto viene da sé.